In Serie A, né campioni né manager

Il commento di Alessandro F. Giudice sul futuro del calcio
In Serie A, né campioni né manager© LAPRESSE
Alessandro F. Giudice
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ROMA - Nella stagione in cui ha dato la speranza di accorciare la distanza tecnica dalla Premier, la Serie A potrebbe subire un ridimensionamento causato, ancora una volta, dalla distanza economica. Il mercato da poco iniziato si popola di voci su campioni in uscita. Tonali è volato al Newcastle ma si parla di Kim, Barella, Lobotka, Theo, Osimhen e sempre i club inglesi sono in prima fila. Come se non bastasse lo shopping della Premier, l’ultima novità è la campagna aggressiva dei sauditi che, dopo aver catturato CR7, sono intenzionati ad allestire un torneo di alto livello, dotandosi dell’attrattiva di campioni del calcio europeo. Non solo atleti sul viale del tramonto, ora anche calciatori ancora nel pieno della carriera. Nulla di nuovo, per carità. Lo fecero i Cosmos negli anni ’70, poi la Mls, i cinesi. Tentativi rivelatisi velleitari perché comprare l’agonismo, la competitività, il fascino è obiettivo ambizioso. Questa volta, però, le masse di denaro sono stratosferiche, senza precedenti.

Opportunità e diritti tv

Tornando alla Premier, sul piano economico non c’è partita. I ricavi aggregati del massimo campionato inglese sono a 6,4 miliardi di euro: esattamente il doppio di Liga (3,2) e Bundesliga (3,1) mentre la Serie A fattura un terzo (2,3), tallonata ormai a breve distanza dalla Ligue 1 (2 miliardi). Preoccupa il declino dei ricavi della Serie A (-7%) in una stagione che ha visto il ritorno negli stadi a capienza piena: siamo l’unico campionato a non avere ancora recuperato i livelli di ricavi pre-Covid. Il futuro si prospetta grigio: c’è allarme sull’asta dei diritti tv. Le offerte sono al ribasso e il prossimo ciclo triennale si annuncia difficilissimo. Proprio ieri, De Laurentiis ha rivelato che le offerte finora pervenute sono inferiori anche a 600 milioni. Due anni fa, una variegata fronda in Lega Serie A operò con successo per affondare l’operazione che l’ex presidente Dal Pino cercava di concludere con una cordata di fondi guidata da Cvc. La proposta sul tavolo prevedeva 1,7 miliardi cash per il 10% della media company in cui convogliare i diritti, oltre a 1,2 miliardi annui minimi, garantiti per tre anni, come paracadute sulla vendita dei diritti. Prevalsero interessi variegati. C’era chi non voleva legarsi le mani perché progettava la Superlega e chi era preoccupato di difendere piccole rendite di posizione. La motivazione ufficiale, sbandierata da molti, fu che si svendeva il calcio italiano. Che oggi, stando a chi conosce la situazione, sembra valere molto meno dei minimi allora garantiti. La Spagna, per dire, non si fece pregare due volte, accettando la proposta della stessa cordata che aveva approcciato invano la Serie A.

Il futuro del calcio

I tifosi devono capire che la debolezza del nostro calcio, da cui deriva l’incapacità di trattenere i giocatori migliori, discende da un vuoto di managerialità, di progettualità. Dall’assenza di un modello di business. Oggi le leghe nazionali competono sul grande mercato dell’intrattenimento calcistico: perde posizioni chi non riesce a offrire al pubblico un prodotto all’altezza. Milioni di pseudo tifosi danneggiano il calcio ricorrendo a pezzotti e schede pirata e pare davvero incredibile che non si trovi una soluzione tecnologica a prova di ladri. Forse va ripensato anche il meccanismo delle aste. Chi offre per i diritti forma un oligopolio che diviene spesso collusivo perché, finita l’asta, nascono le alleanze tra broadcaster. Ma se il tuo prodotto è perdente e i compratori colludono, diventa illusorio pensare di spuntare il prezzo migliore da un’asta. Meglio sarebbe forse sposarsi con uno o più broadcaster, fare squadra per migliorare il prodotto anche garantendo diritti più generosi, con un piano a medio termine da cui potrebbero vincere tutti. Servono idee, che non ci sono. Servono manager, anziché vocianti coinquilini litigiosi.


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