Mazzone, l'ultima corsa

Leggi il commento del direttore del Corriere dello Sport - Stadio
Mazzone, l'ultima corsa©  Ansa
Ivan Zazzaroni
4 min

“È morto Mazzone”. Secco, sintetico, definitivo come un addio. È il messaggio che intorno alle 16 di ieri mi ha inviato Massimo Cellino, accompagnandolo con la foto in bianco e nero della presentazione al Cagliari nel ’91: Cellino giovanissimo, Mazzone sempre uguale a Mazzone, giusto un filo più magro. È morto Mazzone, il nostro Carletto, l’allenatore del Corriere dello Sport-Stadio, e che nessuno si offenda. Mazzone romano de Roma, calciatore a Latina, Roma, Ferrara, Siena, Ascoli; allenatore sempre nell’Ascoli di Rozzi, e a Firenze, Catanzaro, Bologna, Lecce, Pescara, Cagliari, Roma, Napoli, Perugia, Livorno. Brescia l’unico sconfinamento. Fatico a non parlare dei nostri tanti incontri: Carletto è stato una presenza continua, affettuosa. Ricordo quando, insieme a Filippo Galli, Gino Corioni e Vittorio Petrone, riuscimmo a convincere Baggio ad andare al Brescia. Non ci volle molto. Mazzone è stato l’allenatore che Robi ha amato di più, quello che ha capito anche l’uomo. Oppure quando in precedenza, dopo aver seguito il presidente Sensi e la moglie fino a Lugano, dove avrebbe incontrato Carlos Bianchi, telefonai a Menichini, il suo secondo, per informarlo che il presidente stava per cambiare allenatore. Mazzone mi richiamò dopo un secondo per dire che non ci credeva, che non era vero. Era turbato, angosciato: gli stavano togliendo la Roma. E l’ultima intervista a Bologna, all’hotel Amadeus. La squadra, a gennaio, era a un passo dalla zona Uefa; gli parlavo d’Europa e lui: «Non è finita, mancano ancora troppi punti». Ebbe maledettamente ragione: a fine stagione l’unica retrocessione della sua storia, un fallimento mai elaborato, a nulla servirono le attenuanti (Calciopoli) ripetutamente elencate dal presidente Gazzoni. Carlo Mazzone è stato tutto e tanto: sparate indimenticabili, battute fulminanti, passioni corrisposte. Ha insegnato calcio, ma anche vita. È stato moderno, in particolare nel rispetto degli obiettivi e delle caratteristiche dei giocatori. Totti e Baggio i figli più amati, ma anche Guardiola. «La tecnica è il pane dei ricchi, la tattica è il pane dei poveri», uno dei suoi classici. «Battere la Roma? È mio dovere provarci, ma è come uccidere la propria madre», perché lui era colore. «Gestire Roberto Baggio è stata una passeggiata. Era un amico che mi faceva vincere la domenica». «Un giorno mi chiamò il presidente Sensi. “Carlo, mi consigliano di prendere Litmanen, che faccio?”. Gli risposi: “Perché buttare i soldi, abbiamo il ragazzino” (era Francesco Totti)». Per descriverlo ai più giovani potrei proseguire con le frasi cult: sarebbe divertente, strapperebbero un sorriso, ma risulterei riduttivo. Da ore scorrono le immagini della sua folle corsa verso la curva atalantina, inseguito da Edo Piovani, il team manager bresciano, era il 30 settembre del 2001: le offese alla madre («Mazzone figlio di puttana») al gol del pareggio di Baggio al 92esimo produssero la leggendaria risposta fisica. «Buttame fuori, me lo merito» disse alla fine rivolgendosi all’arbitro Collina. Da anni Mazzone si era ritirato a Ascoli, il tempo gli aveva cancellato la memoria. Per tutti noi era diventato una domanda, in particolare ogni 19 marzo, il giorno del compleanno: “come sta, il Magara?”. O “Menaje”, l’invito ai suoi che gli avevano attribuito ma che aveva sempre rinnegato. La sua pelle era la Roma. In un mondo di tagli sartoriali e calzoni slim, Mazzone indossava la tuta e d’inverno - per anni - la cuffia a nascondere pelata e idee, come a dire: «Sto a lavora’, sono uomo di campo, io». Quanto l’abbiamo amato.


© RIPRODUZIONE RISERVATA