Giorgio Gaber è sempre qui, di vedetta, come ci ricorda il docufilm di Riccardo Milani, «Io, noi e Gaber». Il destino di non morire appartiene ai geni. E lui lo era. Basta orecchiarne le canzoni, ascoltarne i monologhi. Molti sono gli agganci che, a spulciare tra le note e fra le parole, si adattano al mondo dello sport in generale, e del calcio in particolare. Per esempio: da quando la menata dei “piedi invertiti” ha spinto il destro a sinistra e il mancino a destra - perché, accentrandosi, avrebbero potuto sfoderare il meglio della loro artiglieria - «Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra» sembra fatto apposta per accompagnare e scandire i singhiozzi del lessico tattico. Ai tempi del Cagliari scudettato, Gigi Riva era uomo di sinistro che dalla sinistra battezzava i suoi safari. Eppure nessuno, sull’isola, diede del matto a Manlio Scopigno, il filosofo («Ma lo chiamavan drago»). Avanti popolo. Ricavato dalla vena del cantautore Gian Piero Alloisio, ecco un classico che non tramonta mai: «Non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me». Adeguabile, dalla discesa in campo in poi, a ogni genere di “ismo” in voga o in foga. A cominciare dal Milan di Sua Emittenza, naturalmente. Un movimento che cambiò, dal di dentro, la mentalità calcistica del nostro Paese. Salvo precipitare nel ridicolo dei sudditi e nel grottesco dei servi. Di facile riciclo: «Non temo il Sacchismo in sé, temo il Sacchismo in me». Traduzione: ho paura di scimmiottare il progetto senza poterne reggere il concetto, di trascurare i cerini olandesi che ne avevano acceso, e diffuso, il verbo.
James Kerr, autore di «Niente teste di cazzo», ha scritto che «Martin Luther King disse: “Io ho un sogno” non “Io ho un piano”». Lo slogan più nobile e mobile rimane però questo: «La libertà non è uno spazio libero. La libertà è partecipazione». Un invito a scendere dall’albero dell’Ego per offrirsi a una sorta di servizio militante e non militare. Un concetto guardiolista più che allegriano. Là dove, per il feticista labronico, la libertà è privilegiare i propri gusti, le proprie fisime. In barba ai pulpiti imperanti. Tanto, tutte le strade portano al risultato. «Secondo me quella sedia lì va spostata» è invece il manifesto di un Palazzo che, da Giovanni Malagò a Gabriele Gravina, gioca con le poltrone, ossessivo e ingordo, a caccia perenne di mandati e mandanti. Noi che pagheremmo per vertici meno sclerotizzati; loro che, al contrario, si barricano e non si muovono manco con le cannonate. «Al punto in cui siamo non resta che affidarsi a una figura autorevole e competente, forse un tecnico. Magari di destra appoggiato dalle sinistre». Forse. L’archivio strepita. Non c’è che l’imbarazzo della strofa. Immaginate José Mourinho a spasso per Trigoria dopo le ceneri romaniste di Praga: «Una brutta giornata, chiuso in casa a pensare, una vita sprecata, non c’è via di scampo. Mah, quasi quasi mi faccio uno shampoo». E a proposito di Nazionale, visto il calendario che attende i “cittadini” di Luciano Spalletti: «Mi scusi Presidente (all’epoca, Carlo Azeglio Ciampi) lo so che non gioite se il grido “Italia, Italia” c’è solo alle partite». Sipario.