
Se ne va la sostanza più autentica del calcio italiano. E non sarebbe giusto neanche chiamarla identità, perché la simbiosi tra Gigi Riva, la Sardegna e l’Italia non fu un destino ma una scelta di vita, una volontà di trovare se stesso in una terra e in un simbolo. Se ne va tra i fischi del pubblico di Riyad, che insulta la memoria col suo semplice ignorarla, rendendo plastico l’abisso di analfabetismo a cui può giungere il calcio che si svende ai petrodollari. Se ne va tra i fulmini dell’Inter che conquista la Supercoppa con l’aiutino di un arbitraggio due pesi e due misure, indecoroso per una finale. A queste piccole, grandi vergogne del nostro calcio parla l’eredità morale di un uomo, un campione, che non fu semplicemente il migliore, perché fu unico, imparagonabile e irripetibile. Un uomo senza famiglia, per sventura individuale, e senza gioia, perché solo, dovunque fosse. Solo di una solitudine che lo ha reso più amato e più infelice, un eroe tragico a cavallo tra due Italie, quella laboriosa e umile del boom economico e quella conflittuale degli anni di piombo, nel punto in cui evapora la memoria della guerra e tutto si fa politica