Nella notte in cui il calcio sposa la finanza araba, l'ultimo no di Gigi Riva

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Nella notte in cui il calcio sposa la finanza araba, l'ultimo no di Gigi Riva© Inter via Getty Images
Alessandro Barbano

Se ne va la sostanza più autentica del calcio italiano. E non sarebbe giusto neanche chiamarla identità, perché la simbiosi tra Gigi Riva, la Sardegna e l’Italia non fu un destino ma una scelta di vita, una volontà di trovare se stesso in una terra e in un simbolo. Se ne va tra i fischi del pubblico di Riyad, che insulta la memoria col suo semplice ignorarla, rendendo plastico l’abisso di analfabetismo a cui può giungere il calcio che si svende ai petrodollari. Se ne va tra i fulmini dell’Inter che conquista la Supercoppa con l’aiutino di un arbitraggio due pesi e due misure, indecoroso per una finale. A queste piccole, grandi vergogne del nostro calcio parla l’eredità morale di un uomo, un campione, che non fu semplicemente il migliore, perché fu unico, imparagonabile e irripetibile. Un uomo senza famiglia, per sventura individuale, e senza gioia, perché solo, dovunque fosse. Solo di una solitudine che lo ha reso più amato e più infelice, un eroe tragico a cavallo tra due Italie, quella laboriosa e umile del boom economico e quella conflittuale degli anni di piombo, nel punto in cui evapora la memoria della guerra e tutto si fa politica


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Rombo di Tuono

Alla politica e al mercato, al pari del successo, quest’uomo seppe resistere con una condotta di vita che somiglia a una indomita tempra, e che accorcia la distanza tra il mito e la realtà. Gigi Riva era vero, ancorché la sua verità a volte sfiorava l’impossibile. Come quando guidò la Nazionale nelle cavalcate che, a distanza di due anni, la portarono a vincere l’Europeo e a sfiorare il Mondiale. O come quando, rientrato con il perone inchiodato dopo otto mesi di stop, segnò un gol in tutte e quattro le ultime partite del campionato, tornando a piegare le mani dei portieri. Rombo di Tuono, così lo chiamò Gianni Brera, simboleggiava un’inedita, e forse mai più ripetuta, pastura: una muscolatura imponente vestiva la sua ossuta magrezza come una corazza invincibile, capace di scagliare il pallone alla velocità del suono. Tutto ciò che nel campione era esibizione di forza nell’uomo parlava la lingua, o più spesso il silenzio, della discrezione, della mitezza, del pudore. Ma anche un attaccamento integrale alla maschera di orfano che la sorte gli aveva messo addosso. «Io non ho nessuno a cui dedicare nulla – disse ancora a Brera in una storica intervista – Segno per dovere».


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L'ultimo no di Gigi Riva

In quel dovere c’era un universo insondabile. L’orgoglio e la paura, l’amore per l’isola che lo aveva accolto, il no a Boniperti che per tre anni lo cercò con insistenza. Con un Tonali oggi rifai il Milan, con Riva il Cagliari avrebbe preso un miliardo e sei giocatori. Lui non volle. La sua responsabilità parla, per contrasto, all’attuale generazione di fuoriclasse, tentati dalle offerte degli sceicchi anche a costo di gettare alle ortiche il proprio futuro sportivo. Nella notte in cui il calcio sposa la finanza araba con un matrimonio di discutibile interesse, Gigi Riva ha detto il suo ultimo no, rifiutando l’intervento che avrebbe forse potuto salvargli la vita. Ancora una volta solo lui conosce le ragioni del rifiuto. Ancora una volta la sua dignità fa vibrare il cuore chi, bambino, lo vide accendere l’Italia di emozione.


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Se ne va la sostanza più autentica del calcio italiano. E non sarebbe giusto neanche chiamarla identità, perché la simbiosi tra Gigi Riva, la Sardegna e l’Italia non fu un destino ma una scelta di vita, una volontà di trovare se stesso in una terra e in un simbolo. Se ne va tra i fischi del pubblico di Riyad, che insulta la memoria col suo semplice ignorarla, rendendo plastico l’abisso di analfabetismo a cui può giungere il calcio che si svende ai petrodollari. Se ne va tra i fulmini dell’Inter che conquista la Supercoppa con l’aiutino di un arbitraggio due pesi e due misure, indecoroso per una finale. A queste piccole, grandi vergogne del nostro calcio parla l’eredità morale di un uomo, un campione, che non fu semplicemente il migliore, perché fu unico, imparagonabile e irripetibile. Un uomo senza famiglia, per sventura individuale, e senza gioia, perché solo, dovunque fosse. Solo di una solitudine che lo ha reso più amato e più infelice, un eroe tragico a cavallo tra due Italie, quella laboriosa e umile del boom economico e quella conflittuale degli anni di piombo, nel punto in cui evapora la memoria della guerra e tutto si fa politica


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