Ancelotti è una sentenza

Leggi il commento sul tecnico del Real Madrid dopo la vittoria della Coppa Intercontinentale
Ancelotti è una sentenza© Getty Images
Massimiliano Gallo
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«Posso allenarlo anche io il Real Madrid», è una delle tante frasi cui siamo costretti dal calcio al tempo dei social. Meglio riderci su. Da ieri sera Ancelotti è l’allenatore con più titoli nella storia della Casa Blanca. Quindici. Ha superato il leggendario Miguel Muñoz. È anche oltre gli U2: in Spagna ricordano l’attacco di “Vertigo” con le parole di Bono Vox «uno, due, tre, quattordici». Carlo è a quindici. In 315 partite. Un trofeo ogni ventuno incontri. Una sentenza. Una delle tante doti dei fuoriclasse è riuscire a far credere che le cose difficili possano riuscire a tutti. In questo Ancelotti eccelle. Con quell’aria da perenne tenente Colombo. Il signore di Reggiolo è un incassatore come nemmeno Vito Antuofermo (per i più piccoli, leggendario pugile italiano, peso medio, che riuscì a fare pari con Marvin Hagler). È in grado di lasciar credere che sia una passeggiata di salute allenare una squadra senza più Kroos e con un Mbappé in più. Kylian il calciatore voluto a tutti i costi da Florentino Perez e che Carletto non può che far giocare “fuori ruolo”. Tra mille virgolette. Perché lì, a sinistra, c’è sua maestà Vinicius. Quando Ancelotti tornò a Madrid, nel 2021, la frase più gettonata era quella di Benzema che in campo disse: «non passategli la palla, sennò è persa». In tre anni di cura emiliana, Vinicius è diventato un calciatore straordinario, ha collezionato reti decisive, ha segnato in due finali di Champions (entrambe vinte), non ha conquistato il Pallone d’Oro per un complesso di cose (direbbe Paolo Conte). Una sua tripletta all’Osasuna, lo scorso 9 novembre, ha evitato un esonero che avrebbe sorpreso solo chi non è pratico di faccende madridiste. Non a caso Ancelotti lo celebrò su Instagram con una foto di loro due abbracciati: «Te quiero, Vini». Ancelotti, insieme col figlio Davide e il suo staff, è anche quel signore capace di non fare una grinza quando, per mesi, l’elenco degli infortunati si è allungato quasi quotidianamente. Mai una polemica. Mai una parola fuori posto. Mai un accenno a chi cura i muscoli dei calciatori. La realtà va sempre accettata. E affrontata. È il sale dell’educazione ricevuta. Bisogna avere il mestiere e la capacità di convincere calciatori straordinariamente forti, come Valverde, Camavinga, Tchouameni, a giocare fuori ruolo per il bene della squadra. Come, ai tempi, riuscì a far giocare Di Maria tra la mezz’ala e l’interno di centrocampo. Le cose bisogna sapere come dirle e come farle digerire. Sapendo che al Madrid nessuno, e men che meno Florentino Perez, ti concederà mai l’alibi delle assenze. Il quindicesimo trofeo arriva dieci anni dopo il primo. Era il 16 aprile del 2014, finale di Coppa del Re contro il Barcellona. Gol di Bale al minuto 85. Quaranta giorni dopo, arrivò la prima Champions madridista di Carletto. Ora sono tre, cinque in totale comprese le due col Milan. Nessuno ne ha vinte quanto lui. Nessuno le indossa con più disinvoltura di lui. L’alchimista degli stati d’animo. L’uomo che trasforma lo stress in energia positiva. E ti fa credere che anche tu, che sfoghi il tuo rancore su una tastiera, puoi allenare il Real Madrid.


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