Mourinho esclusivo: "Il calcio è in mano a tanti fenomeni dell'incompetenza"

Allenatore e personaggio inimitabile, ci invita a una riflessione sui cambiamenti di un mondo che conosce come pochi altri, guardando al futuro: tutte le sue parole tra Roma, Inter, Fenerbahce, Bove e Budapest
Mourinho esclusivo: "Il calcio è in mano a tanti fenomeni dell'incompetenza"
Ivan Zazzaroni

José, quando ti sei sentito pienamente realizzato come allenatore?
«Mai. Voglio vincere la prossima partita e sentirmi realizzato per un paio di giorni».

L’ultima intervista dell’anno l’ho riservata all’incontro più speciale della mia carriera, José Mourinho. Mourinho sempre sorprendente, migliore di qualsiasi idealizzazione. Perché lui è forza, lealtà, profondità. Stili di vita, relazioni, aspettative, gerarchie, mentalità: tutto, in questa chiacchierata a distanza, è palpabile e presente. E tutto viene giudicato alla sua maniera. «Sono tornato in campo tre giorni dopo l’intervento in laparo alla cistifellea. Mi sono rimesso subito a lavorare perché è la cosa che mi piace di più e che so fare meglio».

Domenica 5 riparte dall’Hatayspor, il Galatasaray è distante molto più degli attuali 8 punti in classifica perché è l’espressione di un potere anche politico che si manifesta a tutti i livelli. 

Sadece futbolu bildigini sananlar, aslinda futboldan hicbir sey bilmiyor: «chi sa solo di calcio non sa nulla di calcio» tradotto in turco non suona bene. Eppure non ci hai pensato un attimo: tu che parli portoghese (ovvio), italiano, spagnolo, inglese e francese e che hai indicato a tanti colleghi la strada della comunicazione intelligente, hai accettato di sfidare una delle lingue e delle realtà calcistiche più complesse d’Europa. Spiegami perché l’hai fatto.

«Perché amo il calcio e amo il mio lavoro. Non mi va di aspettare e ancora aspettare l’opportunità ideale, il posto perfetto, e ancor meno di prendermi un anno sabbatico. So che a tanti piace, o almeno così ce la raccontano. Ho detto sì a un club che mi ha voluto tanto e me l’ha dimostrato fin dal primo giorno».

Il principe dei comunicatori risulta però dimezzato dal turco e dalla traduzione del suo inglese. A proposito, quanto ti infastidisce l’etichetta di grande comunicatore che prevale spesso su quella di grande allenatore?

«Un grande comunicatore non vince tutti i titoli più importanti del calcio».

Si chiude un anno particolare per te: quali le cose da buttare e quali salvi?

«A livello personale scelgo il matrimonio di mia figlia, è stato un momento magnifico e sono felicissimo per loro... L’uscita dalla Roma è stata dura, però non butto nemmeno quella».

Alleni da un quarto di secolo, vent’anni fa vincesti la prima Champions. Quanto sei cambiato da allora e dove credi di essere migliorato?

«Sono cresciuto a tutti i livelli. Ogni giorno imparo qualcosa di nuovo, lavoro per migliorare continuamente. E non è una frase fatta».

Dove risiede la grandezza di un allenatore?

«Nella carriera, non nel momento. La grandezza di un allenatore è nei risultati, non nella filosofia. E nell’umanità, non nell’egocentrismo. Nel coraggio, non nell’autotutela. Nell’onestà, non nel relazionale. Nella sintonia con la nuova generazione di colleghi. Nel riuscire a dormire bene di notte perché sa di essere stato sempre indipendente intellettualmente e verticale».

La crisi del City di Guardiola ha rilanciato l’importanza dell’aspetto mentale: i giocatori sono sempre gli stessi - certo manca Rodri - ma i risultati sono spaventosamente negativi?

«Solo Pep può parlare con cognizione di causa del suo caso. Il resto sono banalità, è superficialità».

Si parla tanto di evoluzione del calcio: secondo te dove si è realmente evoluto e dove invece è sempre uguale?

«Uguale? Chi segna un gol in più o ne subisce uno in meno, vince. Evoluto, dici? L’allenatore, che fino a poco tempo fa era una figura fondamentale nella struttura del club, è diventato progressivamente meno importante e sempre più dipendente da strutture e personaggi il più delle volte impreparati. Calcio giocato? Calcio allenato? Calcio analizzato? Ci sono stati cambiamenti su tutti i piani e a tutti i livelli».

E altri potrebbero esserci. Cosa pensi del Var a chiamata e del tempo effettivo?

«Sono l’ultimo che può parlare di Var e tempo effettivo. Lasciamo questi argomenti ai fenomeni del calcio. Io sono solo un allenatore e voglio fare solo l’allenatore».

I fenomeni del calcio? Scusa, chi?

«Gli allenatori bravi che non sanno vincere, gli esperti dei social media e gente che ha potere decisionale ma che sa di calcio come io di fisica dell’atomo. Il calcio è il regno della superficialità e dei luoghi comuni e un’etichetta non si nega a nessuno. Di solito quando la gente parla di me pensa a cosa è successo quindici, dodici, otto o dieci anni fa. È così per la maggior parte dei grandi allenatori che di solito guidano le squadre migliori e hanno le maggiori possibilità di arrivare in finale. Negli ultimi anni ho fatto tre finali, una con il Manchester United e due con la Roma. Guardo a tutto ciò un po’ divertito, e allo stesso tempo con orgoglio perché quando fai questo con un club senza storia in Europa, ti rendi conto che hai realizzato qualcosa di speciale».

Qual è stata la tua partita perfetta e perché?

«Uhi, difficile rispondere… Porto-Lazio 4-1, semifinale Uefa 2002-2003? Loro hanno segnato dopo 50 secondi e in seguito non hanno più toccato palla. Inter-Bayern 2-0, dopo un minuto si sapeva già chi avrebbe vinto. Manchester-Tottenham 1-6, e avrebbero potuto essere 7, 8, 9. È altrettanto complicato non trovare una partita perfetta nei miei Chelsea che hanno mangiato la Premier».

E quale il rimpianto?

«Se parliamo di partite, tanti perché quando perdi pensi sempre che avresti potuto fare diversamente, e di partite ne ho perse parecchie. Se invece ti riferisci alle scelte professionali, il no a Florentino. Mi disse “Mou, non andare via adesso, il difficile l’hai fatto e viene il bello… Sapevo che sarebbe stato così, però volevo tornare al Chelsea dopo tre anni in Spagna di grandi lotte... E dopo Budapest. Non per il casino combinato da Taylor, ma per il fatto di non essermene andato subito. Avrei dovuto lasciare la Roma, non l’ho fatto e ho sbagliato».


© RIPRODUZIONE RISERVATA

Torneresti a lavorare in Italia?
«Certo».

È vero che prima di lasciare Roma acquistasti un biglietto per andare a salutare i tifosi all’Olimpico?

«Non uno, quattro. Ero in hotel con i miei assistenti che mi dissero: “Mister, meriti di salutare i tifosi e i tifosi meritano di salutare te. Andiamo”. Ci ho pensato qualche ora, poi ho temuto che mi avrebbero accusato di voler disturbare e io non faccio queste cose, mai».

Segui ancora Roma e Inter?

«Non ho più visto giocare la Roma. L’Inter, sì».

Quando l’Atalanta ha vinto l’Europa League cos’hai pensato?

«Ottimo, il premio alla competenza e a un progetto serio, tanti anni di lavoro fatto bene con lo stesso allenatore e la stessa filosofia di gioco. Ero triste per Xabi, tifavo Bayer, però l’Atalanta l’ha ultrameritato. Un buon arbitro, un buon Var, degni di una finale europea».

Il padre di Bove un giorno disse: “Ho capito che mio figlio avrebbe potuto fare il calciatore solo quando a farlo esordire è stato Mourinho”.

«Bove è come me. Nessuno gli ha regalato niente. Ha esordito con me perché abbiamo principi simili, anche se uno ha vent’anni e l’altro sessanta».

La qualità che ti riconosci?

«L’umiltà, la lealtà e l’educazione… Adesso tanti rideranno. Anch’io sorrido pensando alla gente che ride di questa affermazione, però è così... E il difetto, non essere paraculo».

Nel futuro c’è una nazionale?

«Sì. Voglio giocare un Europeo o un Mondiale, unire un Paese intorno alla sua nazionale nello stesso modo in cui sono riuscito tante volte con i club e i tifosi. Voglio farlo per il calcio, per quello che questo sport rappresenta. Sarà incredibile».

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José, quando ti sei sentito pienamente realizzato come allenatore?
«Mai. Voglio vincere la prossima partita e sentirmi realizzato per un paio di giorni».

L’ultima intervista dell’anno l’ho riservata all’incontro più speciale della mia carriera, José Mourinho. Mourinho sempre sorprendente, migliore di qualsiasi idealizzazione. Perché lui è forza, lealtà, profondità. Stili di vita, relazioni, aspettative, gerarchie, mentalità: tutto, in questa chiacchierata a distanza, è palpabile e presente. E tutto viene giudicato alla sua maniera. «Sono tornato in campo tre giorni dopo l’intervento in laparo alla cistifellea. Mi sono rimesso subito a lavorare perché è la cosa che mi piace di più e che so fare meglio».

Domenica 5 riparte dall’Hatayspor, il Galatasaray è distante molto più degli attuali 8 punti in classifica perché è l’espressione di un potere anche politico che si manifesta a tutti i livelli. 

Sadece futbolu bildigini sananlar, aslinda futboldan hicbir sey bilmiyor: «chi sa solo di calcio non sa nulla di calcio» tradotto in turco non suona bene. Eppure non ci hai pensato un attimo: tu che parli portoghese (ovvio), italiano, spagnolo, inglese e francese e che hai indicato a tanti colleghi la strada della comunicazione intelligente, hai accettato di sfidare una delle lingue e delle realtà calcistiche più complesse d’Europa. Spiegami perché l’hai fatto.

«Perché amo il calcio e amo il mio lavoro. Non mi va di aspettare e ancora aspettare l’opportunità ideale, il posto perfetto, e ancor meno di prendermi un anno sabbatico. So che a tanti piace, o almeno così ce la raccontano. Ho detto sì a un club che mi ha voluto tanto e me l’ha dimostrato fin dal primo giorno».

Il principe dei comunicatori risulta però dimezzato dal turco e dalla traduzione del suo inglese. A proposito, quanto ti infastidisce l’etichetta di grande comunicatore che prevale spesso su quella di grande allenatore?

«Un grande comunicatore non vince tutti i titoli più importanti del calcio».

Si chiude un anno particolare per te: quali le cose da buttare e quali salvi?

«A livello personale scelgo il matrimonio di mia figlia, è stato un momento magnifico e sono felicissimo per loro... L’uscita dalla Roma è stata dura, però non butto nemmeno quella».

Alleni da un quarto di secolo, vent’anni fa vincesti la prima Champions. Quanto sei cambiato da allora e dove credi di essere migliorato?

«Sono cresciuto a tutti i livelli. Ogni giorno imparo qualcosa di nuovo, lavoro per migliorare continuamente. E non è una frase fatta».

Dove risiede la grandezza di un allenatore?

«Nella carriera, non nel momento. La grandezza di un allenatore è nei risultati, non nella filosofia. E nell’umanità, non nell’egocentrismo. Nel coraggio, non nell’autotutela. Nell’onestà, non nel relazionale. Nella sintonia con la nuova generazione di colleghi. Nel riuscire a dormire bene di notte perché sa di essere stato sempre indipendente intellettualmente e verticale».

La crisi del City di Guardiola ha rilanciato l’importanza dell’aspetto mentale: i giocatori sono sempre gli stessi - certo manca Rodri - ma i risultati sono spaventosamente negativi?

«Solo Pep può parlare con cognizione di causa del suo caso. Il resto sono banalità, è superficialità».

Si parla tanto di evoluzione del calcio: secondo te dove si è realmente evoluto e dove invece è sempre uguale?

«Uguale? Chi segna un gol in più o ne subisce uno in meno, vince. Evoluto, dici? L’allenatore, che fino a poco tempo fa era una figura fondamentale nella struttura del club, è diventato progressivamente meno importante e sempre più dipendente da strutture e personaggi il più delle volte impreparati. Calcio giocato? Calcio allenato? Calcio analizzato? Ci sono stati cambiamenti su tutti i piani e a tutti i livelli».

E altri potrebbero esserci. Cosa pensi del Var a chiamata e del tempo effettivo?

«Sono l’ultimo che può parlare di Var e tempo effettivo. Lasciamo questi argomenti ai fenomeni del calcio. Io sono solo un allenatore e voglio fare solo l’allenatore».

I fenomeni del calcio? Scusa, chi?

«Gli allenatori bravi che non sanno vincere, gli esperti dei social media e gente che ha potere decisionale ma che sa di calcio come io di fisica dell’atomo. Il calcio è il regno della superficialità e dei luoghi comuni e un’etichetta non si nega a nessuno. Di solito quando la gente parla di me pensa a cosa è successo quindici, dodici, otto o dieci anni fa. È così per la maggior parte dei grandi allenatori che di solito guidano le squadre migliori e hanno le maggiori possibilità di arrivare in finale. Negli ultimi anni ho fatto tre finali, una con il Manchester United e due con la Roma. Guardo a tutto ciò un po’ divertito, e allo stesso tempo con orgoglio perché quando fai questo con un club senza storia in Europa, ti rendi conto che hai realizzato qualcosa di speciale».

Qual è stata la tua partita perfetta e perché?

«Uhi, difficile rispondere… Porto-Lazio 4-1, semifinale Uefa 2002-2003? Loro hanno segnato dopo 50 secondi e in seguito non hanno più toccato palla. Inter-Bayern 2-0, dopo un minuto si sapeva già chi avrebbe vinto. Manchester-Tottenham 1-6, e avrebbero potuto essere 7, 8, 9. È altrettanto complicato non trovare una partita perfetta nei miei Chelsea che hanno mangiato la Premier».

E quale il rimpianto?

«Se parliamo di partite, tanti perché quando perdi pensi sempre che avresti potuto fare diversamente, e di partite ne ho perse parecchie. Se invece ti riferisci alle scelte professionali, il no a Florentino. Mi disse “Mou, non andare via adesso, il difficile l’hai fatto e viene il bello… Sapevo che sarebbe stato così, però volevo tornare al Chelsea dopo tre anni in Spagna di grandi lotte... E dopo Budapest. Non per il casino combinato da Taylor, ma per il fatto di non essermene andato subito. Avrei dovuto lasciare la Roma, non l’ho fatto e ho sbagliato».


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