L'intervista impossibile: Helenio Herrera

Fu il Mago artefice dei successi della Grande Inter e uno dei primi allenatori ad assumere i connotati del personaggio mediatico. Abbiamo immaginato di poterci scambiare due chiacchiere, tra tanti ricordi legati al calcio e ai suoi uomini
L'intervista impossibile: Helenio Herrera
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La Grande Inter che dominava l’Europa negli anni Sessanta viveva di personaggi che occupavano da fuoriclasse i ruoli determinanti nei successi di ogni squadra di calcio: un presidente munifico e lungimirante, Angelo Moratti; giocatori che riempivano le domeniche degli sportivi come le recite del rosario riempiono gli spazi delle chiese; e un allenatore che, per la prima volta nella storia del calcio italiano, si imponeva all’attenzione dell’opinione pubblica grazie a una personalità che tracimava fragorosamente gli argini della panchina.

Helenio Herrera arrivò a Milano nel 1960 scevro della fama che lo accompagnerà negli anni a venire: Moratti ne aveva intuito le qualità che, nel giro di poco tempo, furono evidenti agli occhi di tutti. Già, perché Herrera portava con sé uno spirito rivoluzionario che sapeva imporsi senza spargimenti di sangue. Scaltro, intelligente, cresciuto alla scuola della povertà, Helenio seppe proporre il ruolo dell’allenatore secondo canoni completamente innovativi, che avrebbero segnato la strada dei suoi contemporanei e dei suoi successori e facevano perno sull’importanza di fattori quali lo stimolo mentale, la preparazione atletica e il carisma personale. Abbiamo immaginato di sviscerarli con lui, Mago di quell’Inter che sciorinava la sua formazione come una litania sacra che cominciava con Sarti, Burgnich e Facchetti.

  

Helenio, tu sei nato a Buenos Aires da genitori spagnoli, hai iniziato a giocare a calcio in Marocco e hai ottenuto la cittadinanza francese. Parlare di te dandoti una patente di provenienza probabilmente non ha senso.
Infatti. E perché poi, a cosa servirebbe? Ho imparato tanto in ogni posto dove ho vissuto e dalle persone che ho incontrato. Nella vita credo che siano importanti le cose che si riescono a fare, non il posto da dove si viene. Sono orgoglioso di essere riuscito a ottimizzare tutte le mie esperienze e di averle utilizzate per raggiungere i successi che ho avuto.

In Italia arrivasti nel 1960 che avevi alle spalle già più di un decennio da allenatore, peraltro con buoni risultati. Ma fu con l’Inter che divenisti incredibilmente famoso e riconosciuto.
Fui bravo a creare le condizioni ideali perché tutto ciò avvenisse. Il presidente Moratti credeva molto in me e io anche! In quella squadra, poi, trovai un gruppo di ottimi calciatori che, seguendo i miei consigli, raggiunsero risultati eccezionali. Fui bravo a capire che l’allenatore poteva diventare una figura di riferimento all’epoca inesistente: prima del mio arrivo molti miei colleghi non erano nemmeno conosciuti dagli addetti ai lavori e dai tifosi.

Per questo riuscisti a ottenere ingaggi da capogiro? Si dice che fossi molto attaccato al denaro.
Lavoravo come un pazzo, pensavo sempre al calcio 24 ore al giorno. Ottenevo risultati, facevo contenti tutti: presidente, giocatori, tifosi. Chiedevo quello che pensavo di valere e se mi veniva concesso significava che me lo meritavo. Del resto da bambino di soldi in casa non ne giravano molti, quindi era normale che io ne riconoscessi l’importanza e cercassi di guadagnarne tanti. 

Con te la figura dell’allenatore assunse i connotati del personaggio che è considerato oggi. Grazie alle tue affermazioni era piuttosto semplice fare dei titoli: che rapporto avevi con i giornalisti?
Ho sempre avuto il massimo rispetto per la vostra professione perché sapevo che tramite voi, le vostre parole e, perché no, le vostre polemiche, a volte inventate, tutto il mondo del calcio traeva benefici. Sono sempre stato franco e cortese nel rispondere a tutte le domande che mi venivano fatte, ma per gestire a mio vantaggio queste dinamiche parlavo con i giornalisti trattandoli come dei bambini di dodici anni, comunicando chiaramente e scandendo le parole per evitare polemiche sgradite e inutili fraintendimenti.

La Grande Inter fu una tua creazione?
Sì, anche se senza i calciatori che ho potuto allenare quella squadra non sarebbe mai esistita. Ma io ne ero l’allenatore, quello che li stimolava, sapeva tirare fuori da loro il meglio che fossero in grado di dare.  

Come erano i tuoi allenamenti?
Organizzavo tutto col fine ultimo di rendere i miei uomini i migliori calciatori possibili. Vincere uno scudetto o una Coppa dei Campioni è il risultato della somma di tre fattori: classe, preparazione atletica e intelligenza. I giocatori di classe li avevo, a me spettava lavorare sulla loro preparazione atletica e sull’intelligenza. Li volevo veloci in tutto: nei movimenti, nell’aggredire la palla, nel ribaltare le azioni, nel pensiero. Ecco perché li facevo allenare sempre con esercizi basati sulla velocità e, soprattutto, era importante che nelle sedute non mancasse mai il pallone: quando c’è lui i calciatori sentono meno la fatica perché si divertono.

Come capisti che era determinante l’aspetto psicologico nella preparazione dei calciatori?
Chiedo a te come sia possibile non comprenderlo. I calciatori sono uomini e gli uomini agiscono al meglio quanto più si sentono motivati e confidenti nelle proprie capacità. Io cercavo di fare questo, di utilizzare tutti gli stratagemmi possibili per aiutare i miei uomini a dare tutto quello che potevano. Capitava, a volte, che non potessi disporre di qualche titolare. In quelle circostanze, dal lunedì prima della partita, cominciavo a curare con particolare attenzione l’aspetto mentale di chi avrebbe dovuto giocare al posto del calciatore assente: lo coinvolgevo per farlo sentire importante, anche se fino a quel momento non aveva mai giocato e si sentiva ai margini della squadra. Sapevo quali leve motivazionali dovevo usare e la domenica anche chi normalmente non giocava si trasformava in un leone perché lo avevo convinto che lui era un elemento determinante per ottenere la vittoria. Per me chi non dava tutto era come se non avesse dato niente.

E’ per questo che ti soprannominarono il Mago?
Sì, anche se io non mi sono mai considerato tale. Ero solo un bravo allenatore che lavorava molto e che aveva bisogno di bravi giocatori, come quelli che avevo all’Inter.

Avevi anche un altro soprannome: H. H.
Sì, lo so e non è che mi facesse impazzire. Proveniva dallo spagnolo, "habla habla": venne fuori perché qualcuno diceva che parlavo in continuazione. Ma se serviva a vincere, andava bene così.   

Ti hanno accusato di dopare i tuoi giocatori.
Balle. Sono sempre stato un uomo molto disciplinato anche con me stesso per tutto quello che riguardava la forma fisica e l’alimentazione: facevo yoga tutti i giorni, stavo attento ai cibi che mangiavo, non bevevo e non fumavo. Come avrei potuto dopare i miei calciatori? Mi limitavo a somministrargli acido acetilsalicilico nel caffè insieme allo zucchero, perché quella sostanza toglie i piccoli dolori ed è uno stimolante cerebrale.

Qualcuno sostenne che l’invenzione del catenaccio non fu farina del tuo sacco, bensì un’idea del presidente Moratti.
Una balla anche questa. Ti racconto come mi venne l’idea del catenaccio. Giocavo terzino si­nistro nello Stade Français: in una gara importante stavamo vincendo 1-0 ma eravamo in difficoltà. Allora io, che ero il capi­tano, decisi di cambiare il WM con cui eravamo schiera­ti: andai dietro la difesa, da­vanti al portiere, e dissi al media­no di marcare la mia ala. Una mossa che replicai quando divenni allenatore. I miei ragazzi l’avevano chiamato “le be­ton”, il cemento, perché il libero garantiva una migliore copertura difensiva.

Quando terminò la grandiosa epopea dell’Inter?
Direi nel 1967. Alla fine di quell’annata, in pochi giorni, perdemmo sia la finale di Coppa dei Campioni col Celtic che il campionato, con la sconfitta di Mantova. All’inizio di quella stagione avevamo bisogno di rinforzi per rinvigorire la squadra: avevamo fatto firmare un precontratto a Beckenbauer e volevamo prendere pure Eusebio. La chiusura delle frontiere per i calciatori stranieri dopo i mondiali del 1966 fece saltare tutto e noi rimanemmo col cerino in mano.

Dopo i fasti del periodo interista andasti alla Roma, ma i risultati non furono altrettanto lusinghieri. Perchè?
Perché ci fu un poco de mala suerte. E poi il presidente non spendeva i soldi che servivano per fare una grande squadra: se non spendi i soldi, non vinci.

Nella Capitale, però, incontrasti la tua terza moglie…
Sì, Fiora è una donna incredibile. Mi fece un’intervista e me ne innamorai: intelligente, autonoma, curiosa. Uno spirito libero, che sapeva anche comprendere le mie distrazioni coniugali. Pensa che era lei a leggermi le lettere che mi scrivevano le ammiratrici! 

Torniamo alle cose di campo: con l’Inter ti ritrovasti nel 1973, giusto?
Vero. Fu un’annata sfortunata, fui costretto a lasciare per gravi problemi di salute. Peccato chiudere così con l’Inter: avrei avuto voglia di inventarmi qualcosa di nuovo, magari sulla falsariga dell’Ajax che aveva dominato quei primi anni Settanta.

In panchina chiudesti anni dopo col Barcellona.
Tornai in Catalogna nel 1979, dopo che avevo già lavorato lì sul finire degli anni Cinquanta. Quella chiamata mi ringiovanì, mi regalò vent’anni di vita. Fu bellissimo anche perché tornai a vincere, nel 1981, la Coppa del Re. Finii alla grande!

C’è un allenatore di oggi che senti più simile a te?
Mourinho
, perché è il più sveglio di tutti, il più carismatico. È un portoghese attivo, poco malinconico. Anche a lui piace vestirsi bene, essere elegante. E anche lui ha idee molto chiare, elemento determinante per poterle imporre agli altri. Non è un caso che José abbia voluto leggere gli appunti che ho scritto fino agli ultimi giorni della mia vita.

Come di Mourinho, anche di te si diceva che fossi presuntuoso. E’ vero?
Come si fa a essere dei leader, a essere seguiti da una squadra se non si è presuntuosi? Io ero presuntuoso perché pensavo che quello che facevo fosse giusto per raggiungere dei risultati. Se non fossi stato presuntuoso non sarei riuscito a essere convincente coi miei giocatori, con la stampa, col pubblico.

Mourinho, però, spesso è considerato antipatico. Tu, al contrario, alla gente piacevi.
La differenza sta nel modo in cui ti poni. Io, contrariamente a José, la mia presunzione cercavo di non farla pesare. Ero cresciuto per strada, avevo conosciuto diversi popoli sin da giovane, sapevo come stare in mezzo alla gente e risultare simpatico. Sapevo perdonare i nemici ma non dimenticavo i loro nomi (ride, ndr).

Ti piace il calcio di oggi?
No no, no me gusta nada. Però sono sempre stato attratto dal calcio africano anche quando i suoi giocatori non venivano in Europa. Ecco, sì, in Africa il calcio ha ancora qualcosa che mi piace, qualcosa di istintivo che vorrei toccare con mano. Oggi potrei allenare lì.

Saresti ancora un Mago?
Sì, sì, uno stregone!


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