Zauri, doppio ex di Atalanta e Lazio: "Vi racconto la mia storia"

L'avventura dell'ex terzino in nerazzurro e in biancoceleste: "La Dea mi ha regalato la Nazionale, a Roma ho giocato la Champions e sono stato capitano..."
Zauri, doppio ex di Atalanta e Lazio: "Vi racconto la mia storia"© Getty Images
9 min

ROMA - Nato a Pescina il 20 gennaio 1978, Luciano Zauri ha diviso la sua carriera da calciatore principalmente tra Lazio e Atalanta, militando anche con Chievo Verona, Fiorentina, Sampdoria e Pescara. Oggi, dopo le esperienze in panchina con la Primavera e la prima squadra del Pescara, allena i ragazzi del Bologna. A Roma e Bergamo ha lasciato il cuore ed è da considerarsi come uno dei grandi ex della sfida. 

Sei partito dalle giovanili dell’Atalanta, hai lavorato con tanti allenatori, c’è qualcuno che ti ha influenzato in particolare? "Il mio percorso parte da molto lontano. Ho fatto gli esordienti con l’Atalanta, ho avuto la fortuna di lavorare tre anni nella Primavera con Prandelli, che poi ho ritrovato tra i professionisti alla Fiorentina. Sempre all’Atalanta, Vavassori, e alla Lazio Mancini e Delio Rossi, con cui ci siamo tolti tante soddisfazioni, qualificandoci prima in Europa League e poi in Champions. Non m’ispiro a nessuno in particolare, ho però avuto la fortuna di avere tanti bravi allenatori e ho cercato di prendere qualcosa da tutti, perché da gente che calca i campi di Serie A da 20, 30, 40 anni, c’è sempre qualcosa da imparare".

Quanto è stato difficile allontanarsi da casa così giovane per intraprendere la carriera da calciatore? "Sono partito da solo, a 12 anni, da un paesino sperduto come Pescina. Ho vissuto due anni in collegio a Bergamo, ero il più piccolino di tutti. I miei genitori mi hanno raggiunto nel ’92. Lo racconto spesso ai miei ragazzi, perché i sacrifi ci nella vita di un calciatore sono molto simili, fatti per la maggior parte di gente che va via di casa. Poi si va oltre e si guarda il finale, in cui si hanno delle belle auto, si gioca in Serie A e così via, ma alla base c’è un sacrificio incredibile, pari a quello che fanno le persone nella vita di tutti i giorni. Devo essere grato ai miei genitori, che, pur non navigando nell’oro, mi sono stati sempre vicini, nonostante vivessi a 700 chilometri da casa, e all’Atalanta che mi ha aiutato. All’epoca piangevo tutti i giorni, è stata veramente dura. Quando poi ce la fai sei doppiamente contento di poter ripagare i tuoi genitori per quei sacrifi ci incredibili".

Quali sono i ricordi più belli dell’esperienza all’Atalanta? "Ho un bellissimo ricordo dell’esordio in Serie A con mister Mondonico (15 maggio 1997 n.d.r.). Un altro, indelebile, è legato alla cavalcata della stagione 1999-00. Eravamo una squadra composta da giocatori provenienti dal settore giovanile: con i fratelli Zenoni, Pelizzoli, Donati e Rossini ci conoscevamo fin da piccoli, siamo cresciuti praticamente insieme, per poi ritrovarci in prima squadra. Un gruppo composto da giovani mischiati a vecchi volponi, come Massimo Carrera o Fabio Gallo. Era tornato in rosa anche il mitico Claudio Caniggia. Non giocò molto, ma partecipò comunque alla promozione, per un ragazzino come me è stato fantastico poter giocare con uno come lui. Quella promozione dalla B alla A è stata un’esperienza bellissima".

Con la Dea arrivò anche la chiamata in Nazionale, che emozioni hai provato? "A 12 anni lasci casa con una borsa e speri di diventare professionista, arrivi in Serie A e speri di arrivare in Nazionale. Io ho fatto questo percorso accompagnato da speranze e sogni che portavo dentro di me. La chiamata in Nazionale fu il coronamento del mio sogno. Sentire l’inno dal campo e poter indossare la maglia azzurra è un’emozione che mi porterò dentro per tutta la vita".

Nel 2003 il tuo arrivo alla Lazio, che ricordi hai? "Sono passato dalla retrocessione con l’Atalanta, dopo soli 2 mesi, a giocare un preliminare di Champions contro il Benfica per poi addirittura poter culminare la stagione con la vittoria della Coppa Italia. È stato un sogno poter condividere lo spogliatoio con tanti campioni come Mihajlovic, Peruzzi, Albertini, Lopez o Stam. Era una squadra fortissima che in campionato arrivò a ridosso delle primissime. Un’annata incredibile con tanti ricordi, forse quello che resta più impresso è legato all’ultima partita, quando tutto sembrava compromesso e, invece, dopo i gol di Corradi e Fiore, finì in trionfo, con tutta la gente laziale presente al vecchio Delle Alpi a festeggiare la vittoria della Coppa Italia".

Cosa ti piaceva fare con i tuoi compagni? "Alla Lazio ho sempre vissuto la squadra e il gruppo in un certo modo. Mi piaceva organizzare compleanni e cene. Erano tavolate anche da quaranta persone, coinvolgendo tutti, dai calciatori ai magazzinieri. Per me era un onore e un piacere vedere che tutti quanti rispondevano presente. Il gruppo c’era, si divertiva e siamo riusciti a to glierci qualche soddisfazione anche sul campo".

Che aria si respirava nel 2006-07, dopo la batosta di Calciopoli? "Delio Rossi ci riunì nello spogliatoio per parlarci di quello che era successo e ci disse che chi avesse voluto sarebbe stato libero di andare. Rimanemmo tutti compatti e alla fine, nonostante la penalizzazione, arrivammo addirittura terzi".

Quell’anno Rossi ti affidò la fascia da capitano. "Personalmente ci tengo sempre a ricordare che in quella squadra c’era un certo Angelo Peruzzi e, con uno come lui affianco, è tutto più facile. A Rossi non piaceva il capitano in porta e di conseguenza per militanza toccò a me. È stato un onore e una grande responsabilità".

Cosa si prova, dopo aver guidato da capitano la squadra al ritorno in Champions, a segnare nel giorno del debutto? "Ci scherzo sempre perché ho fatto pochissimi gol in carriera e quello è stato per pochi intimi, visto che la partita si giocava a porte chiuse. Perciò il ricordo di quel gol è quasi strozzato, ma sono comunque cose che ti rimangono scolpite nella memoria: fare un gol in Champions League è una soddisfazione incredibile a livello personale".

Un episodio che ricordi con piacere legato all’ambiente capitolino? "Una cosa che mi piace ricordare accadde quando tornai per l’ultima volta all’Olimpico da collaboratore di Oddo con l’Udinese. Quel giorno i tifosi fecero lo striscione per me e per lui. Quel meraviglioso pensiero fu un grande onore. Mi ha fatto venire i brividi perché vuol dire che qualcosa sul campo ho lasciato. Ho avuto la dimostrazione che l’affetto che provo per i tifosi sia ricambiato".

Andasti via definitivamente nel gennaio 2013, c’è rimpianto per non aver vinto quella coppa storica contro la Roma? "Il 26 maggio ho fatto il tifo, ero quasi dentro al campo con i miei ex compagni. Però vivendolo da professionista era arrivato il momento di andare, avevo un altro anno e mezzo di contratto e in quella stagione praticamente non avevo mai messo piede in campo. Ho fatto una scelta che mi ha spezzato il cuore, perché comunque andavo a giocare nella mia regione, nella squadra per cui facevo il tifo da bambino, per me era come chiudere il cerchio, rientrando in Abruzzo per giocare con il Pescara. Dall’altra parte c’era grande dispiacere e rammarico per aver lasciato la Lazio, una squadra che dal cuore non mi toglierà mai nessuno".

Per finire una curiosità riguardo la tua posizione in campo. Durante la tua carriera hai ricoperto tanti ruoli, da bambino giocavi addirittura in attacco... "Anche nella Lazio ho giocato in attacco, in un Parma-Lazio 0-3. Il mio ruolo l’ho ricoperto per la prima volta con Vavassori, perché nell’Atalanta non c’era un terzino sinistro e lui, che mi conosceva a memoria avendomi avuto anche in Primavera, era convinto che potessi giocare lì. Negli anni i fatti hanno dato ragione sia a lui che a me. Poi, probabilmente ho fatto metà degli anni a sinistra e l’altra a destra, muovendomi all’occorrenza anche in altri ruoli, ma prevalentemente come esterno basso".


© RIPRODUZIONE RISERVATA