Juve-Lazio, Morrone ricorda l'impresa del 1964

L'ex attaccante biancoceleste: "Facemmo la partita perfetta contro una squadra fortissima. La più bella soddisfazione della stagione"
Juve-Lazio, Morrone ricorda l'impresa del 1964
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"Non so quante squadre nella storia siano riuscite ad andare a Torino e fare tre gol in casa della Juve. In questa stagione ce l’ha fatta la Fiorentina, anche se i viola hanno giocato quasi tutta la gara in superiorità numerica. Noi con la Lazio facemmo una grandissima impresa. Una di quelle cose che restano nella storia". Juan Carlos (ma ormai per tutti Giancarlo) Morrone, attaccante e bandiera della Lazio degli Anni Sessanta non ha dubbi: la vittoria a Torino del 22 marzo 1964 rimarrà per sempre uno dei ricordi più belli della sua avventura in maglia biancoceleste. "Anche perché noi venivamo da un periodo molto sfortunato. Eravamo una buona squadra, con Lorenzo in panchina, un innovatore per quegli anni. Giocavamo sempre un buon calcio, ma i risultati non erano positivi. Salimmo a Torino in un momento negativo, ma eravamo convinti di poter fare bene".

Lazio tutto cuore

Era una Lazio povera, ma con una forte identità. Una squadra che si reggeva sulle giocate di Morrone, sui gol di Rozzoni, sulle geometrie di Governato e le parate di Cei. Una formazione che con orgoglio era uscita da una pesante crisi societaria, iniziata dopo la vittoria della Coppa Italia del 1958 e che aveva portato al sacrificio di diversi pezzi da novanta (su tutti il centravanti Selmosson, ceduto tra mille polemiche alla Roma) per far quadrare i conti ed evitare il fallimento. Sperare che quella Lazio fosse in grado di affrontare e battere i bianconeri sembrava quasi impossibile. "Nella Juve c’erano giocatori eccezionali, che tutti veneravano. Ricordo la prima volta che l’affrontai da avversario: fu una sfida allo Stadio Olimpico che perdemmo. Di fronte avevamo dei campioni eccezionali, come Charles che, quando saltava in area per colpire la palla di testa, rimaneva in sospensione per diversi secondi. Altro che Cristiano Ronaldo. Sembrava un angelo in volo. E poi c’era Sivori".

Battere l'idolo

Per un argentino come Morrone, Omar Sivori era quasi un Dio. "Frequentavo una scuola italiana in Argentina che si chiamava il Raggio, a pochi passi dal campo di allenamento del River Plate. Bene, insieme ai miei amici non andavo a scuola per andare a vedere gli allenamenti. Ci concentravamo su Angelillo, Maschio e Sivori. Li chiamavano il trio dalla faccia sporca. Tre idoli assoluti per tutti gli argentini. Per me sembravano tre icone. Mai avrei pensato un giorno di poterli affrontare e di essere un calciatore come loro. Con Maschio poi ho giocato alla Fiorentina e nei ritiri dormivamo in stanza insieme. Sivori invece, al termine di quella trasferta a Torino venne a complimentarsi con me. Un’emozione straordinaria". Perché Giancarlo Morrone non si è solo accontentato di battere la Juve. L’ha schiantata con le sue giocate, i suoi dribbling e segnando un gol bellissimo. "Quella partita fu perfetta. Non sbagliammo nulla. Dopo pochi minuti ci trovammo in vantaggio grazie a un gol segnato da Landoni. Poi raddoppiò Maraschi e arrivò il mio gol. Bello ma molto particolare".

Il gol 

Siamo al minuto quarantadue. Maraschi entra in area di rigore e viene sgambettato dal difensore juventino Salvadore. L’arbitro, il signor Jonni di Macerata, fischia e corre verso l’area. Tutti si aspettano il penalty, ma incredibilmente il direttore di gara concede solo una punizione dal limite. Maraschi è incredulo, prende il pallone e lo piazza al limite dell’area; calcia con potenza e precisione e insacca sotto la traversa. Ma ancora una volta il fi schietto di Macerata diventa protagonista, imponendo la ripetizione del tiro, a suo dire, scagliato prima del fischio. "Non c’ho visto più. Già eravamo tutti incavolati perché era rigore, poi addirittura ci toglie anche il gol perché disse che non aveva fi schiato. Ho preso il pallone e sono andato a tirare io. Calciai con tutta la potenza che avevo in corpo e feci gol al portiere Anzolin. Per vedercelo assegnato abbiamo praticamente dovuto segnare due volte". Una vittoria netta e senza storia. "Fu la più bella soddisfazione di quella stagione. Giocavamo un buon calcio, tant’è vero che non siamo mai stati invischiati nelle zone calde della classifica, ma non sempre i risultati arrivavano. Lorenzo era un allenatore moderno, uno stratega che non lasciava niente al caso. A volte rasentava l’incredibile e aveva mille scaramanzie. Il povero Recchia, l’autista del pullman, quando arrivavamo allo stadio era costretto a rallentare fino a che il semaforo non diventava rosso. A quel punto doveva accelerare e passare tra gli insulti delle altre macchine. Altrimenti era convinto che avremmo perso la partita. Una volta gli feci uno scherzo: gli dissi che c’erano tre tipi che spiavano il nostro allenamento. Impazzì. Ci ha fatto entrare di corsa negli spogliatoi fino a quando non si convinse che intorno al campo non ci fosse nessuno. Era notte fonda. I miei compagni mi insultarono".


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