Maradò, Maradò

Quattro Mondiali disputati da calciatore e uno da ct. Tra trionfi, torti subiti e cadute ha scritto la storia: quello del 1986 è stato l'ultimo vinto dall'Argentina e in Qatar si gioca la prima Coppa del Mondo senza Diego
Maradò, Maradò
Mimmo Carratelli
4 min

Laggiù, a Doha, per il Mondiale del Qatar, la telecamera sentimentale si è spenta sul calcio di punizione di Leo Messi in curva mentre l’Argentina restava sotto le grinfie dell’Arabia Saudita vittoriosa a sorpresa. Sullo sfinimento della “pulce” contro gli arabi, la telecamera ha staccato. Non c’è più il ragazzo coi riccioli neri. Non c’è più magia sull’erba. L’erede non è stato mai erede. Non c’è più l’Argentina di un artefice magico. L’incantesimo appartiene al passato. È una mano nel cielo dell’Azteca, è l’indimenticabile serpentina di settanta metri tra gli inglesi che cadevano come birilli, è lo slalom sublime fra l’intera difesa belga, è nelle lacrime a Roma per i fischi e quella finale rubata, è in quell’ultimo gol a Boston e una donna bionda vestita di bianco se lo portò via dal Foxboro Stadium in un tardo pomeriggio del Massachusetts perché nessuno poteva più sopportare la sua luce immortale sul campo.

Sempre presente

Laggiù, tra le dune e i cammelli, questo è il primo Mondiale senza Diego, proprio il primo, perché lui c’era al Mondiale in Germania, urlando di gioia a Dortmund per la vittoria dell’Italia sui tedeschi a fi anco del telecronista argentino. E c’era in Sudafrica, a bordo-campo, con quel vestito grigio chiaro di una taglia troppo grande, maneggiando un rosario, tuffandosi di pancia sull’erba inzuppata d’acqua del Soccer City Stadium di Johannesburg, affidando proprio a Leo Messi le sorti dell’Argentina, inutilmente, la “pulce” non segnò neanche la miseria di un gol. E c’era ancora Diego al Mondiale in Russia, quattro anni fa, la sua sola presenza sugli spalti valeva l’intero Mondiale. Mentre si giocava c’erano solo occhi e telecamere per il Pibe, come in quel giorno di fine giugno, una sera alla Zenit Arena di San Pietroburgo. Si stava giocando Argentina-Nigeria, e Diego massiccio e sorridente, stretto in una maglietta azzurra della Puma, ballava in tribuna, e finalmente Leo Messi segnò, e le telecamere andavano sempre su Diego fin quando il suo posto rimase vuoto, nell’intervallo, perché Diego si era sentito male. 

La mancanza

C’è Diego in tutti gli stadi del mondo e nelle città del suo mondo d’amore, ultimo e unico incantatore del pallone magico. Il calcio era Diego, allegria e genio, incantesimo, lealtà e gol d’autore, irripetibili. Che calcio è senza Diego? Che Mondiale è senza il Pibe, senza la magia dei pallonetti fatati e poi condottiero dalla panchina sognando che ci fosse uno come lui con la maglia dell’Albiceste, uno che non ci sarà mai. 

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Il giorno più brutto

Il 25 novembre di due anni fa, e fu un maledetto anno bisestile, era una dolcissima giornata d’autunno a Napoli quando, alle cinque della sera nel golfo, ed era mattina a Buenos Aires, il leone di cento battaglie e di vittorie memorabili, Dieguito del nostro cuore, reclinò la testa per sempre in una casa d’affitto sul delta del Paranà, solo come era stato sempre solo nella sua splendida e drammatica vita. Se ne ricorderà il Mondiale del Qatar? 

Diego c'è sempre

Leandro Martini di La Plata, giovane allenatore che fu con Diego al Gimnasia, è a Doha e indossa la maglietta dell’Argentina col numero 10 e il nome di Maradona. Allora, c’è Diego anche al Mondiale arabo. Ed è bello immaginare che il grido gioioso, Maradò, Maradò, cavalchi le dune sino al Golfo Persico e rimanga come un’eco che non si spegne, sul Mondiale, sugli stadi del mondo, sulla eterna nostra nostalgia del “pelusa” che divenne il più grande di tutti, soggiornando a Napoli, seconda mamma sua come disse in una canzone.


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