La Pulce e il sogno dei senzanome

La Pulce e il sogno dei senzanome© EPA
Alessandro Barbano
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Logica vorrebbe che si partisse da Messi. Sua la magia che rompe il braccio di ferro tra Argentina e Australia. Suo il campo che percorre a passo d’uomo, come un pensionato al parco che osservi senza scomporsi i bambini giocare, salvo poi accendersi d’un baleno in supereroe e saltare avversari, ubriacarli con il pallone tra i piedi, regalare assist agli sciuponi dei suoi compagni, Lautaro in primis. Logica vorrebbe che si celebrasse lui, re Leo, nella sua millesima notte di calcio che coincide anche con il sorpasso di Maradona nei gol segnati al Mondiale: otto per il Pibe, nove per la Pulce.
Ma questo derby tra finis terrae, tali sono Argentina e Australia nel pianeta, suggerisce anche un finale incompiuto e tuttavia non meno suggestivo. È quello che offre a due senzanome l’occasione della vita di ribaltare lo svantaggio e portare la nazionale oceanica ai supplementari contro i maestri albicelesti del pallone. Senzanome sono infatti nell’Olimpo del calcio il trentaduenne Aziz Behich, nato a Melbourne da immigrati turco-ciprioti, terzino nel Dundee United in Scozia dove il suo valore di mercato non supera quello del laccio di una delle due scarpette di Messi, naturalmente la destra; e il diciottenne Garang Kuol, concepito in un campo di rifugiati in Egitto da una famiglia sudanese, che fugge dalla guerra del Darfur e trova poi riparo insieme a suoi sette figli in Australia, dove lui, il più piccolo della comitiva, si farà apprezzare per i gol segnati nel Central Coast Mariners, tanto da finire sul taccuino degli osservatori del Newcastle, che da gennaio lo vestiranno con una maglia inglese.

Aziz e Garang ricorderanno la notte di Doha per tutta la vita, chiedendosi che cosa hanno sbagliato, pur senza aver sbagliato nulla, e che cosa ha impedito alla loro pionieristica impresa di uscire dall’universo ricchissimo delle potenzialità incompiute e imporsi alla storia, portando l’Australia dove l’Australia non è mai arrivata. Ma il caso vuole che entrambi sbattano contro un Martinez e scoprano quanto effimeri siano, talvolta, i sogni degli aspiranti pionieri. Il terzino si ferma sul piede del Martinez centrale, dopo aver dribblato, con la foga della disperazione, quattro difensori albicelesti come fossero birilli, in un crescendo di fiducia che diventa utopia. A un passo dal gol, quando è ormai convinto di farcela, il tackle dell’unico argentino rimasto sveglio gli sporca la traiettoria della palla quel tanto che basta per sventare il pareggio. L’attaccante adolescente invece si ferma sul braccio di un altro Martinez, il portiere, che sul suo tiro a colpo sicuro oppone l’azzardo di una postura larga, come un’estrema scommessa dell’esperienza. E gli va bene: perché la palla calciata dal ragazzo impatta sul suo bicipite sinistro e diventa inoffensiva.

Questo per dire quanti romanzi diversi si possono scrivere attorno a una partita di calcio, neanche spettacolare, come Argentina-Australia. Aperta da una guerra di posizione lunga quasi un tempo, in cui nulla sembra accadere, perché i due eserciti stanno verticali e opposti a centrocampo, senza che un solo tiro in porta possa modificare quell’equilibrio perfetto. Poi ci pensa la Pulce, fino a quel momento svogliata e dinoccolata come un campione finito, a cui si regala una maglia solo per il nome che porta, e a cui si perdona anche di essere anticipato costantemente dall’avversario. Un anziano al parco, per l’appunto, che guardi impassibile i suoi compagni affannarsi nel pressing e farsi carico del suo passeggio lento. Poi, d’un tratto, il lampo, la freccia, il colpo di biliardo che scocca dalla fantasia nascosta del fuoriclasse e svela l’inganno del suo precedente torpore. Messi è vivo, Messi è il campione, Messi non fa prigionieri. Non ne fa neanche uno, perché da quel momento la pulce è imprendibile, passa tra le linee, alza il tiro tutte le volte che la palla gli capita tra i piedi, e per gli avversari sono dolori.

L’Argentina è ancora anzitutto la sua sublime bandiera. Certo, le braccia che la sostengono sono robuste. Si chiamino Fernandez e De Paul, che macinano chilometri a centrocampo e coprono le spalle al campione, o piuttosto Alvarez, che imita il suo idolo con un gol di puro fiuto, dimostrando quanto un attaccante di razza non abbia alcun bisogno di vedere la porta. Gli basta sentirla, anche trovandosi alle spalle, e calciare in totale cecità di visuale dopo aver rubato la palla all’ingenuo portiere australiano, con la lestezza del ladro. Che toglie a uno solo per regalare a tanti, e noi tra questi. Che Robin Hood, questo ragazzo!


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