Un Paese piccolo piccolo

Un Paese piccolo piccolo© ANSA
Alessandro Barbano
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Siamo un Paese piccolo piccolo. Molto più piccolo di quanto non dicano i numeri della popolazione e dell’economia. Piccolo perché provinciale, rissoso, pieno di pregiudizi che si impastano con un lievito ideologico, da sempre presente nella cultura civile. Il partito preso è la nostra finta coerenza. Sia che si tratti di risollevare il calcio, ed ammettere che il divieto di pubblicità, imposto alle società di scommesse, è stato un boomerang. Sia che si tratti di guardare in faccia la realtà della lotta all’epidemia e dirci che cosa non ha funzionato.

È più facile alzare la nube delle accuse e dei veleni, tra governo e regioni, tra sinistra e destra, tra giornali d’opposizione e fogli di Palazzo. Piuttosto che chiederci con onestà perché, a un mese e mezzo dalla diffusione del virus, abbiamo 18mila morti. Più degli Stati Uniti, che hanno quattro volte il nostro numero di contagiati ufficiali e sei volte la nostra popolazione. Molti di più di qualunque Paese europeo. Dove, con minori divieti, si sono fin qui ottenuti migliori risultati.

La verità è che siamo entrati nel tunnel dei contagi convinti di essere assistiti dalla migliore sanità del mondo. E ne stiamo uscendo a pezzi. Perché avevamo, in proporzione alla popolazione, meno posti di terapia intensiva della maggior parte degli Stati europei, perché abbiamo smantellato la medicina di base sul territorio, perché non ci siamo attrezzati per tempo pur sapendo che il virus era in agguato, perché al suo arrivo lo abbiamo sottovalutato, lasciando aperti ospedali contaminati e trasformandoli in bombe virali, perché non abbiamo avuto una strategia comune tra Stato e Regioni, perché abbiamo rinunciato a mappare con i tamponi la geografia dei contagi, e così non ci è restato che adottare, tardivamente, divieti più severi di qualunque altro Paese, pagando prezzi sociali ed economici maggiori. Ma più di tutto perché anche adesso, che iniziamo a vedere l’uscita dal tunnel, ci manca una strategia comune per correggere gli errori e una visione per il futuro.

Navighiamo a vista, col fiato corto, replicando e amplificando i nostri vizi. Ci indebitiamo di venti miliardi per dare ossigeno a imprese e famiglie, litigando per giorni su chi debba gestire le risorse e trovando alla fine un compromesso burocratico, che renderà più incerta e più lunga la distribuzione dei soldi. Invochiamo la solidarietà europea come un diritto, pretendendo che gli altri Paesi si facciano garanti del nostro debito. In via di principio non abbiamo torto. Ma rinunciamo a comprendere che, come debitori, non siamo credibili. Perché negli ultimi anni abbiamo sciupato tutte le occasioni per fare le riforme e migliorare i servizi - compreso quello sanitario - sperperando denaro in prestito per regalare sussidi e pensioni anticipate.

Colpiti dal virus, rischiamo di soccombere alla nostra risposta immunitaria. Lo ha scritto con rara efficacia Massimiliano Panarari su La Stampa. L’emergenza sanitaria scatena gli anticorpi ideologici, come in un organismo mal regolato: lo statalismo e il moralismo divengono la nostra religione. Il primo arma la burocrazia, illudendoci di poter risolvere i problemi delle famiglie e delle imprese riportando tutto sotto il controllo dello Stato, cioè della politica. Il secondo ci condanna a una stupida intransigenza. Che fa dire per esempio: come si fa, con la gente che muore di fame, a pensare di aiutare il calcio? E se il calcio chiede di potersi aiutare da sé, con la sua capacità di attivare energie, il moralismo glielo impedisce. Nega le scommesse ufficiali e chiude gli occhi su quelle clandestine, nel nome di un’indegna dignità, con cui pure battezza i suoi decreti.

Siamo tutti vittime di un populismo strisciante. Che va ben oltre il perimetro di coloro che, spudoratamente, se lo intestano. Ha contagiato la psiche di istituzioni, partiti, intellettuali e perfino uomini di sport. Ottenebra il coraggio dei grandi progetti e arma l’angustia dei micro-interessi. Il rischio è di uscire da un virus, restando ancora più schiavi di un altro. 


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