Var, perché devono chiamarlo le squadre

Var, perché devono chiamarlo le squadre© Getty Images
Alessandro Barbano
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Le cose non sono così semplici come le racconta Mario Sconcerti sul Corriere della Sera di ieri. Quando dice: se Dumfries non «tira la pedata, l’Inter vince la partita». Dunque: la colpa è di Dumfries, non dell’arbitro o del Var. Stupisce un’esemplificazione tanto riduttiva. La questione è molto più complessa. E non si risolve neanche nell’interrogativo che segue: perché la pedata di Dumfries è fallo e quella di Viña no? Potrebbe anche darsi che a Milano si veda ciò che a Roma s’ignora: potrebbe darsi, cioè, che l’arbitro Guida, al Var di Inter-Juve, abbia visto giusto, e il collega Di Bello, al Var di Roma-Napoli, abbia sbagliato. Ma non è così. Perché i vertici arbitrali convalidano le due diverse decisioni, sostenendo che il calcetto dell’esterno interista ad Alex Sandro sia un fallo oggettivo, poiché commesso in una contesa per il possesso della palla, e il tacchetto del terzino romanista sul tendine d’Achille di Anguissa sia un contatto accidentale. 
Una spiegazione simile è logicamente insostenibile e in contrasto con l’intero sistema sanzionatorio del gioco: perché che la palla sia contesa è irrilevante rispetto a qualunque fallo commesso in area di rigore. Però spiega, per converso, che il problema è tutto nel rapporto tra arbitro e Var: poiché non c’è un confine univoco dove finisce la maestà del primo e inizia il potere di controllo del secondo. Il criterio del «chiaro ed evidente errore», che autorizza il Var a imporre una verifica all’arbitro, è una mera figura retorica, priva di qualunque valore orientativo. Ogni arbitro davanti all’occhio elettronico la interpreta a modo suo, e a posteriori il designatore la piega alle cosiddette necessità della casa, cioè all’obiettivo di rendere coerente ciò che coerente non è. Con l’effetto di indicare elementi di interpretazione che la settimana successiva saranno sovvertiti da un principio opposto. 
Usata in questo modo, la tecnologia produce un’eterogenesi dei fini: anziché rendere univoche le decisioni, le fa apparire confuse e implausibili. I casi di Inter-Juve e Roma-Napoli ne sono un esempio: in assenza del Var i due falli non sarebbero mai stati fischiati dagli arbitri. Con il Var si producono due effetti opposti non giustificabili. 
Il perché sta proprio nel paletto regolamentare posto all’intervento del Var: il «chiaro ed evidente errore». Se il vantaggio offerto dalla tecnologia è quello di vedere nel dettaglio ciò che a occhio nudo non è percepibile, che senso ha limitarne l’uso con un criterio riferito alla fallibilità dell’uomo, facendo sì che la macchina intervenga solo dove l’errore è chiaro ed evidente, e quindi dove sarebbe stato individuabile dall’uomo senza necessità della macchina? Un simile criterio potrebbe stare in piedi se regolasse il rapporto tra due arbitri in campo, posti entrambi nelle stesse condizioni di verifica a «occhio nudo». Invece qui si adopera per dividere il lavoro tra un uomo alleato con una macchina potente e un uomo che ne è sprovvisto. Messo in questo modo, il chiaro ed evidente errore è una contraddizione logica: poiché l’arbitro più dotato, quello del Var, dovrebbe intervenire proprio dove l’errore non è evidente, tanto da sfuggire alla vista dell’arbitro in campo.  
D’altra parte, l’affidare alla moviola ogni decisione ha due controindicazioni: la prima riguarda la natura della tecnologia, che non è priva di imperfezioni, in quanto non è in grado di stimare l’entità del contatto meglio dell’arbitro, con il rischio di far considerare fallo da rigore ogni minimo impatto; la seconda riguarda il ruolo attoriale del direttore di gara, che ne risulterebbe esautorato, con uno snaturamento simbolico. Poiché le decisioni sono parte del gioco e l’arbitro è un protagonista dello spettacolo sportivo. 
C’è un solo vero punto di equilibrio nel rapporto tra arbitro e Var, capace di valorizzare la tecnologia senza mortificare l’uomo: è la moviola a chiamata di parte, cioè la possibilità per ogni allenatore, o capitano, di pretendere un limitato ma adeguato numero di verifiche all’occhio elettronico. Si chiama challenge, ed è applicato con successo in molti sport. Perché riconduce la macchina al ruolo di mezzo, nella disponibilità dei portatori d’interesse del risultato sportivo: le due squadre rivali.  
La resistenza verso il challenge nasconde paure e pregiudizi che da sempre i sistemi umani molto strutturati oppongono all’innovazione. Con il rischio di restarne travolti. Ci pensino i Signori del calcio… 


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