Fermate l'uso distorto del Var

Fermate l'uso distorto del Var
Alessandro Barbano
4 min

« Vorrei vedere, a parti invertite, se il cazzotto di Maignan a Lovato non si rivedeva al Var»: la domanda di un Mazzarri furioso, dopo Cagliari-Milan, interpella nella sua sintassi diretta chiunque creda che il calcio sia ancora un gioco giusto. Bisogna rivedere le immagini del portiere che manca l’uscita e colpisce la nuca dell’attaccante cagliaritano, un attimo dopo che questi ha colpito in anticipo il pallone di testa, e chiedersi se a parti invertite, con il Milan in svantaggio di un gol, quel contatto in area non sarebbe stato riesaminato. E, a parti invertite, bisogna rivedere anche la manata di Giroud su Romagnoli, nel finale di Empoli-Milan del 12 marzo scorso, e mettersi nel ruolo scomodo di tutte le provinciali del calcio, che accettano di stare al gioco con le big in una posizione di parità dimezzata.
Perché nessuno in buona fede può pensare che si voglia regalare intenzionalmente lo scudetto a Pioli. Però la casistica dimostra che, nel momento della decisione che può cambiare il destino di una gara, il diverso peso specifico dei club e le diverse aspettative spostano la discrezionalità degli arbitri dalla parte dei più forti. Il lasco regolamento che disciplina il rapporto tra arbitro e Var diventa così una scatola vuota da riempire con le giustificazioni più implausibili. Come quelle del designatore Rocchi, che, a posteriori, fa sapere di aver condiviso la scelta dell’arbitro, Marco Di Bello, di non assegnare il rigore al Cagliari, e quella del responsabile del Var, Michael Fabbri, di non intervenire.
Sulla decisione del primo si può accettare che non abbia visto l’anticipo dell’attaccante, i pugni del portiere in ritardo che colpiscono la sua nuca, la testa che ruota in torsione innaturale di almeno 45 gradi. L’astensione del secondo invece si fa più fatica a comprendere. Perché non tiene la motivazione per cui il Var non interviene presupponendo che l’arbitro abbia visto il contatto e ne abbia decretato la regolarità. Ci sono decine di casi in cui è accaduto il contrario, cioè in cui il Var ha preteso che l’arbitro riesaminasse al monitor un’azione sulla quale questi aveva già fatto cenno di andare avanti. Il criterio per cui il Var non entra nelle valutazioni che l’arbitro fa dei contatti in area, sul presupposto che la moviola non ne misura l’intensità, è solo una pezza a colori.
Il designatore dovrebbe pensarci bene prima di usarla per tappare questa o quella falla del sistema. Poiché le motivazioni illogiche non sono senza prezzi, ma aggiungono alla naturale imprevedibilità del campo quella dei decisori. L’effetto è di fare del calcio un gioco irrazionale. Un gioco irrazionale non è economicamente spendibile, e non è eticamente sostenibile. I primi a doverlo comprendere sono proprio i forti, cioè i club più importanti della serie A. Dall’uso distorto della tecnologia non traggono nessun vantaggio, ma solo sospetti che svalutano il loro primato sul campo. Sono i primi ad avere l’interesse a riportare l’occhio elettronico del Var alla sua naturale funzione: il raggiungimento dell’esattezza nella valutazione delle azioni controverse.
Per centrare l’obiettivo bisogna porre la tecnologia servizio delle parti in causa, cioè delle due squadre contendenti, riconoscendo a ciascuna il diritto al challenge. Vuol dire consentire agli allenatori di pretendere in un numero limitato di casi il riesame dell’azione al monitor da parte dell’arbitro in campo, l’unico che può unire la percezione dei sensi al contributo delle immagini. La Lega e la Federazione si facciano promotrici di una richiesta al board internazionale che detiene la potestà sulle regole del gioco. L’Italia è già stata sede di sperimentazione per l’introduzione del Var, lo sia anche per la sua messa a punto. Un calcio più giusto sarebbe anche un calcio più bello.


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