Antonio Conte, l'anello (d'oro) di congiunzione

Antonio Conte, l'anello (d'oro) di congiunzione
Ivan Zazzaroni
4 min

Tu chiamale, se vuoi, coincidenze. Nella settimana di Juve-Inter è arrivata la notizia che Antonio Conte, una sorta di anello di congiunzione tra Allegri e Inzaghi, oltre che tra i due club, ha vinto la Panchina d’oro, premio che porta meno sfiga del Seminatore, poi Sterminatore, d’oro. Per il Feroce Salentino (cfr. Giancarlo Dotto) si tratta della quarta volta. Lo stesso giorno, in un’intervista a tutto cachemire per GQ Italia, Allegri ha ricordato che «quando sono arrivato la prima volta nel 2014 era tutto diverso; Antonio Conte aveva fatto un gran lavoro insieme alla società, vincendo tre campionati e costruendo una squadra molto forte che andava solo rifinita. Quest’anno è una squadra molto diversa da quella, con molti giovani, con giocatori forti, ma con meno esperienza. Però stiamo ripartendo da una base chiara, che è il dna della Juventus, e che consiste nel tornare a vincere ma sapendo soffrire e avendo voglia di lottare sempre». Un discorso simile, relativamente alla sua prima stagione, potrebbe farlo Simone Inzaghi, chiamato l’estate scorsa a guidare un’Inter che aveva appena vinto il campionato (con Conte, obviously); Inter la cui solida struttura è stata rifinita con Dzeko e Dumfries al posto di Lukaku e Hakimi.
Conte torna sempre. Della sua ombra non riusciamo a liberarci. Del resto non sarebbe nemmeno possibile: come sottolinea ripetutamente con malcelato piacere, è stato proprio lui a riportare la Juve al titolo dopo due settimi posti e a strapparglielo dopo nove successi consecutivi.
Da mesi lavora di nuovo a Londra, allena gli Spurs, gli speroni, arnesi che - puntuti come lui - fungono da straordinari stimolatori di reazioni. A Torino come a Milano, in Nazionale come in Inghilterra, Conte riesce a essere sempre uguale a se stesso, tanto nel bene quanto nel male. Vive per vincere: la sconfitta - lo ripete ogni volta - è un lutto che fatica a elaborare e gli fa dire anche cose forti e spiacevoli sulla società che non è in grado di soddisfare le sue richieste. Anche per questo da settimane non può più rilasciare interviste ai media italiani: con l’ultima, a Sky, ha fatto danni, subito rimediati sul campo.
Conte non è né un giochista, né un risultatista: appartiene a una specie tutta sua che ha come fine primo e ultimo - lo ribadisco - il massimo profitto attraverso la sublimazione della didattica, l’insegnamento dei movimenti, la cura ossessiva delle distanze. Se vi capita di parlare di calcio e allenatori con chi ha lavorato con Conte, ricevete sempre la stessa risposta: «Sul campo non ce n’è per nessuno, è il migliore in assoluto tra quelli che abbiamo avuto».
Tra i tanti pregi di Conte, la consapevolezza che senza i giocatori veri, quelli buoni-buoni, non si vince una mazza: va detto tuttavia che nel primo anno di Juve fece l’impresa con un gruppo che non era certamente il migliore.
Ad Antonio piace infine sottolineare che la lettura dei giornali non figura tra le priorità. Ma se gli scrivete qualcosa contro e vi conosce da anni, avete perso un amico e trovato un nemico. Solo per qualche mese. Non per sempre.
PS. La Panchina d’oro per la B è andata giustamente al quarantaduenne - proprio oggi: auguri - Alessio Dionisi del Sassuolo (la scorsa stagione all’Empoli). Dionisi fa parte della nouvelle vague italiana, tra i cui esponenti seguo con particolare attenzione Gabriele Cioffi dell’Udinese.


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