Se vince il migliore vince l’Inter

Se vince il migliore vince l’Inter© Inter via Getty Images
Alessandro Barbano
6 min

La Lazio regala, il Milan ringrazia, il Napoli affonda: lo scudetto resta appeso alla coda del Diavolo, e adesso tocca al Bologna dire chi da mercoledì parte davanti nelle ultime quattro partite. Però da ieri è una sfida solo a due. Tra un’Inter agonisticamente ubiqua, tatticamente razionale, caratterialmente motivata. E un Milan creativo ma inconcludente, potente ma distratto, arrembante ma con discreto disordine. Come al solito. Se vincerà il migliore, il migliore è l’Inter. Che ha anche una partita in più e il favore del calendario. Ma una stagione così incerta ci ha abituato a continue altalene di rendimento, e tutto può accadere. Di sicuro ci sarà da divertirsi fino all’ultimo. 
 
La Lazio si fa avanti con uno dei gol più intelligenti del campionato. Immobile è geniale nel movimento che trae in inganno Kalulu e nello scatto rapace del piede sinistro, che tocca quel tanto che basta a ingannare Maignan. Ma è una sfida agonistica impari: il Milan corre due volte e le geometrie biancocelesti non hanno lo smalto e la rapidità per sfuggire alla potenza dei rossoneri. Che tuttavia sprecano, come è loro abitudine, i tre quarti di ciò che costruiscono. Il Milan sta cambiando pelle nella fase cruciale del campionato: mentre i suoi giovani talenti, Leao e Tonali, prendono la scena, Pioli deve fare i conti con il declino dei suoi attempati campioni. Tuttavia, quando pensi che lo spilungone svedese abbia perduto la sua prensile mobilità per diventare un reperto di antiquariato, ecco che lui s’inarca come la torre degli Asinelli per l’assist che vale la speranza. È la coda del diavolo.

Il Napoli dice addio allo scudetto, resta certo della qualificazione in Champions e, da stamane, pensa alla prossima stagione. Il ritiro deciso da Spalletti sarà un’occasione per riflettere. Partendo dalla sconfitta di Empoli, che è metafora di un tracollo sull’ultimo miglio, per il quale ci sono due diverse chiavi di lettura. La prima lo fa dipendere dagli storici punti di debolezza della formazione azzurra: 
1) la mancanza di terzini di ruolo, che ha costretto ieri Spalletti a schierare un giocatore del tutto inadeguato per una squadra di vertice, e forse anche di coda. Malcuit è più volte caduto in questo campionato in azzardi tattici e ingenuità in marcatura. A Empoli si è ripetuto. Sul primo gol cercando un dribbling improbabile in fase difensiva, quando aveva Politano pronto a ricevere palla sulla linea del fallo laterale. Poi facendosi anticipare da Pinamonti per la zampata del tre a due, pur avendo all’inizio dello scatto più di un metro di vantaggio sull’attaccante.  
2) la scarsa dimestichezza con i piedi e un deficit di personalità di Meret, e non sai se attribuire alla prima, al secondo, o piuttosto a entrambi il clamoroso errore in fase di rinvio che è costato al Napoli il gol del due a due.

Questa chiave di lettura, per così dire, chirurgica, indurrebbe a una qualche rassicurazione: Malcuit e Meret sono due rincalzi che Spalletti, se avesse potuto, avrebbe senz’altro lasciato in panchina. Senza i loro clamorosi errori, il Napoli avrebbe vinto due a uno. Senza gli infortuni e le assenze che hanno segnato la stagione azzurra, la classifica sarebbe un’altra. Da questa conclusione la squadra, la panchina e la società possono assolversi e ripartire dalle stesse premesse.

Però c’è un’altra chiave di lettura, che per contrasto con la prima definiremmo clinica, diretta cioè a diagnosticare la malattia degli azzurri anche da sintomi meno visibili. Prendete il terzo minuto della gara: calcio d’angolo da destra, Pinamonti s’incunea nel cuore dell’area di rigore e Rrahmani, che pure gli è di fianco quando la palla parte, resta immobile a guardare. Il caso vuole che l’attaccante dell’Empoli fallisca il più facile dei gol, mettendo al lato di testa a porta vuota. Ma è inaccettabile che un centrale come il kosovaro, per tutto il campionato quasi impeccabile, si conceda una distrazione così grave. Di fronte a questo segnale, il clinico attento capisce che, dalla sfida con la Fiorentina, il Napoli ha perso la testa e non ha nessuna chance di ritrovarla.

L’analisi attenta della gara con l’Empoli lo dimostra: la squadra di Spalletti va due volte in vantaggio perché ha numeri e qualità tecnica imparagonabili con quelli di una provinciale. Che però domina, schiaccia per tutto il primo tempo gli azzurri nella loro metà campo, e tira nell’arco dell’intera gara sette volte nello specchio, contro le due del Napoli. La sindrome dell’ultimo miglio ha colpito gli azzurri com’era già accaduto negli anni scorsi, mettendo a nudo una fragilità caratteriale insormontabile, che suggerisce più di una riflessione. 

Con la partenza di Insigne si chiude un ciclo e s’impone una rifondazione della rosa, che dovrà tener conto di questa fragilità. Ma s’impone anche un ripensamento del sistema manageriale, organizzativo e contrattuale che fa da cornice alla sfida sportiva. Partendo da una domanda: perché la squadra più tecnica del campionato ha rinunciato a vendere cara la pelle per far suo lo scudetto? Si è fatto tutto ciò che un club dovrebbe fare per rafforzare la volontà collettiva attorno a un obiettivo così importante per la città? Una risposta onesta, esauriente, e senza sconti per nessuno, sarebbe la prima pietra da cui ripartire. 
 


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