Nuovi arbitri, serve una fede più forte

Nuovi arbitri, serve una fede più forte
Roberto Beccantini
3 min

Arbitrare è una missione, oltre che un mestiere. Bisogna essere forti dentro e coraggiosi fuori. Lo si diventa per caso, raramente per scelta. Di solito, capita ai più scarsi: in porta o “badanti”. Era così una volta, ai tempi degli oratori e dei parroci, i primi freni alle tentazioni di tunnel e pomiciate.

I 100 anni della sezione di Bologna, celebrati venerdì scorso sotto la regia di Matteo Marani, hanno contribuito ad agitare la memoria. C’erano la politica (il sindaco Matteo Lepore) e la politica sportiva (Alfredo Trentalange, presidente dell’Aia); i grandi che hanno fatto la storia - Pierluigi Collina e, in video, Nicola Rizzoli - e coloro che stanno facendo la cronaca, da Alessandro Prontera a Gianluca Aureliano, figlio di Antonio, padrone di casa. Gli anziani della tribù e i soldati Ryan che sbarcano e combattono lontano dal bagliore dei titoloni. Vittime, spesso, di un doppio agguato: la violenza e l’indifferenza. Altra cosa, in generale: poche donne. In platea e al fronte. Coraggio. 

Ogni secolo ha avuto i suoi simboli. Il Novecento ebbe Concetto Lo Bello, Gigi Agnolin, Paolo Casarin, naturalmente Collina. Chi di polso, chi di guanto. Era l’epoca pre-televisiva, il direttore di gara aveva potere assoluto, i guardalinee - nati “segnalinee” fra le briscole dei bar sport e promossi “assistenti” - dovettero aspettare l’epifania del fuorigioco, piaga biblica, per uscire dall’ombra.

L’italiano confonde, sovente, l’autorevolezza con l’autoritarismo. Il fascismo creò il mito dell’uomo solo al comando: dal balcone all’area. Le vocazioni crepitavano, fare l’arbitro significava incarnare la legge, non servirla. Il Duemila ha demolito il castello. La dittatura della tv, il professionismo di casta, la deriva di Calciopoli, il viagra tecnologico (dai tribunali dei social al Var) ne hanno riscritto il carisma, piegandolo all’autopsia degli episodi e dei sospetti. Aggiungete la pandemia, le capriole del regolamento, la concorrenza dei vari “X Factor” e ricaverete una realtà che sposta molto, imbarazza molti. I giovani hanno fretta: e il calcio va piano, troppo piano. 

Addio alla saga degli sceriffi che sparavano con il fischietto. Il futuro premia le coppie di fatto: un Agnolin diviso per due. Il “capo” in campo, con diritto all’ultima parola, il collega allo schermo. «Sì, gli arbitri di domani - riflette Collina - vivranno in un mondo diverso dal nostro, dal mio. Meno guizzi da solisti, più lavoro di squadra. Fermi restando il merito, la stoffa, le qualità: che, come sempre, scolpiranno le gerarchie, fisseranno i podi». Non escludo che, anche per questo, la recluta sia un po’ più scettica, come succede a chiunque si trovi davanti a un bivio: dirigerò, sì, ma da dove, da San Siro o da Lissone? 

Coglievo, negli occhi del pubblico, sincera passione. Se i giocatori devono essere superiori a tutti, l’arbitro deve essere superiore a tutto. E, senza il fascino di quella “solitudine” che, garantita dalla gavetta, rischia di sfuggire all’apice della carriera, qualcuno potrebbe interrogarsi. La risposta è di una semplicità eroica: per lasciare tracce, dovrà crederci di più.
 


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