Stankovic esclusivo: “Devo tutto a Mihajlovic e Mourinho”

Intervista al tecnico della Samp: José lo chiama fratellino e alla ripresa del campionato se lo ritroverà contro all’Olimpico
Stankovic esclusivo: “Devo tutto a Mihajlovic e Mourinho”© ANSA
Ivan Zazzaroni
7 min

«Dov’è scoppiato l’incendio?». Quando mi richiama, Deki Stankovic attacca così: sa bene che lo stavo cercando da giorni. «Ero a Dubai, il mio cellulare non prendeva». Bugiardo perdonabile, come un altro serbo che occupa un posto enorme nel cuore di tutti, figuriamoci nel suo.

Sentita nei giorni scorsi: Stankovic mi ricorda Mihajlovic.
«Chi l’ha detto? Angelo Palombo?».

Per la verità è stato Luca Pellegrini. Ma se lo pensa anche Palombo non si tratta più di un’impressione isolata. Eppure io vi trovo diversi…
«Sinisa non può essere imitato, uno così non è replicabile».

Così come?
«Così autentico. Compagno, amico, era il mio riferimento in qualsiasi situazione. Ostinato anche. Quando si metteva in testa una cosa, giusta o sbagliata che fosse, tirava dritto. Sinisa era diretto, positivo. E, dopo un errore, aveva una straordinaria capacità di recupero. Verso gli altri e anche verso se stesso. Mi manca, manca nel mio mondo, era la vita, anche se non posso paragonare il mio dolore a quello di Arianna e dei bambini».

Bambini che sono cresciuti.
«Ma sono figli, lo resteranno per sempre. Sono loro che avvertono in ogni istante il peso di un’assenza terribile… Sinisa mi ha fatto crescere più velocemente, mi ha spiegato la vita, dato un indirizzo. Avevo diciannove anni quando sono arrivato in Italia, alla Lazio. I diciannove di allora non sono quelli di oggi. Gli ho sempre camminato di fianco. Nazionale, Lazio, Inter. I primi diciannove senza di lui, i venticinque successivi con lui. Gli chiedevo consigli su tutto, anche sulla vita privata. Era molto protettivo e in meno di un secondo arrivava dritto al punto».

Era anche un inguaribile brontolone.
«Si lamentava, s’incazzava, andava allo scontro con compagni, allenatore, presidente, ma poi sapeva come farsi perdonare, sempre. Dopo una caduta si rialzava immediatamente e ripartiva... Per me era papà».

Un padre di soli nove anni più vecchio.
«Te l’ho detto, mi ha preso che avevo diciannove anni, non sapevo nulla della vita. Se oggi sono questo, un uomo risolto, lo devo a lui».

Curioso che chi ti chiama fratellino, Mourinho, non ne abbia nove, ma sedici più di te. Qualcosa non torna.
«Mourinho lo stimo tantissimo. Arrivò all’Inter che avevo già trent’anni e pensavo di aver dato tutto, anche nel privato. José riuscì a migliorarmi di quel 20, 30 per cento che non sapevo di possedere. Non ci siamo più persi di vista, lo sento ancora oggi, gli chiedo consigli, ci scambiamo pareri, è un uomo e un allenatore di un’intelligenza e capacità non comuni. Lui allena tutti. Giocatori, dirigenti, staff, media, tifosi. Li allena, non li manipola. È empatico, coinvolgente. Proprio come Sinisa, divide. Zero compromessi: o gli stai alla larga oppure lo stimi profondamente. Penso che qualcuno non abbia ancora percepito la grandezza di José. O non la voglia accettare...». «Tornando a Sinisa, ricordo quando arrivò all’Inter. Dicevano che l’avessero preso soltanto perché era l’amico di Mancini. Gli bastarono poche partite per cambiare la gente. Ogni volta che andava a calciare dall’angolo il pubblico di quel settore si alzava in piedi e se lui stava per battere una punizione San Siro gridava il suo nome».

Mou lo trovi superato?
«Superato? Ha vinto tanto e continua a voler vincere, la sua squadra ha momenti in cui gioca bene e altri meno bene, ma alla fine arriva al risultato. Il calcio è molto cambiato. C’era un calcio nel 2008-2010 e ce n’è uno differente nel 2020-23. José sa adattarsi perfettamente ai cambiamenti. Per prima cosa, si rende conto di quello che ha a disposizione, della qualità e delle caratteristiche dei giocatori che allena. Poi cerca di metterli nella condizione di esprimersi al massimo e anche qualcosa di più».

E l’allenatore Stankovic com’è?
«Non ho paura dell’insuccesso, niente mi spaventa. In carriera ho vinto tanto e perso... Ma vuoi chiedermi della Samp, immagino, di questa sfida».

Immagini bene.
«Naturalmente prima di accettare ne avevo parlato con Sinisa, conoscevo la situazione della società che era delicata a 360 gradi. “Mettiti sotto e fai meno cazzate che puoi”, il suo messaggio, un classico. Sono sicuro che mi sarei pentito se non avessi affrontato questa avventura. Ivan, ho 44 anni, anche se dovesse finire male sarei ugualmente rispettato. Alla Stella Rossa perdevo ogni tanto, molto poco... Esiste una bilancia, due piatti, da una parte le vittorie, dall’altra le sconfitte. Quando riesci a ridurre la distanza tra i due piatti, non dico ad allinearli, capisci di essere cresciuto».

Alla bilancia sei arrivato tu, al posto tuo l’avrei evitato. (Sorride). Punti pochi, chili tanti. Conservo racconti di eccezionali bevute notturne, alla serba, insieme a Sinisa e Sasha Danilovic...
«Non bevo più da un sacco di tempo, sono i dolci che mi fregano».

E lo stress da panchina.
«So gestire la tensione e soprattutto non la trasmetto ai ragazzi. Voglio essere di aiuto alla squadra, il mio compito è darle la carica. L’autocontrollo è necessario».

In effetti non hai mai sbroccato. Eppure le occasioni non sono mancate.
«Ho il dovere di vincere la partita a due con il mio istinto. A Empoli, gol annullato, sono uscito due minuti prima. A Monza idem, il rigore non l’ho voluto guardare, non volevo che si parlasse di me. Il fallo di mano di Rabiot l’ho visto subito, sapendo che non avrei potuto cambiare nulla mi sono esposto ma alla mia maniera. Nel calcio c’è un terzo tempo, io riduco al minimo le proteste e a fine partita gli arbitri li abbraccio sempre».

Talvolta stringi più forte.
«No, la stretta non cambia».

Deki, in fondo ti senti più laziale o interista?
«La Lazio mi ha dato la prima grande opportunità, la più importante, e sarò sempre riconoscente a Cragnotti. Con l’Inter abbiamo cambiato la storia del club. Due tappe di una vita».

Un altro tuo compagno di viaggio è stato ed è Roberto Mancini.
«Con la Nazionale ha fatto una cosa straordinaria, la gente ha la memoria corta. Mancio lavora tanto in campo, è un grande lavoratore».

Al rientro dalla sosta troverai proprio la Roma di Mourinho. Lontano dal tuo stadio, dal tuo pubblico.
«Tifosi spettacolari. Io non sono un leccaculo. La tifoseria della Samp sta offrendo un esempio di grande civiltà e attaccamento ai colori. Così come i ragazzi. Se uno venisse a vedere come lavoriamo ogni giorno non penserebbe mai che ci troviamo in fondo alla classifica, tutti danno il 300 per cento... Io non faccio programmi a lunga scadenza, è il calcio stesso che mi porta a vivere del presente. E il presente è il rischio e la volontà di guardarlo sempre negli occhi».

E il presente del campionato chi o cosa è?
«Il Napoli, un sogno di squadra e un grande allenatore, il più bel calcio d’Europa».


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