Allegri, sei italiani sul campo

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Ivan Zazzaroni
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Ricapitolando: i punti della Juve adesso sono 59. Sul campo, naturalmente. Volendo e dovendo fare le cose perbenino, occorre sottrarre i 15 della penalizzazione, che il 19 di questo mese potrebbero anche esserle restituiti. E allora: 59-15+15 più tre mele, una cipolla e due carciofi fa sempre 59, nove più dell’Inter. Non è tutto: Allegri rischia però di perderne un’altra quarantina - dicono alcuni esperti - per effetto delle due inchieste che la procura federale sta conducendo (una, per la verità, l’ha appena chiusa: in settimana i deferimenti). Il che significa che se da qui alla fine vincerà altre 6 partite, la Juve eviterà la retrocessione. Perché 59-15+15-40+18 fa 37 e a trentasette ci si salva aritmeticamente. Non fumo e non bevo, che si sappia: cazzeggio. Gioco sulle storture del nostro calcio e nello stesso tempo ringrazio il Napoli che con un calcio marziano ci permette, per una volta, di non parlare di campionato falsato. Almeno per quanto riguarda la corsa scudetto. Della vittoria sul Verona mi sono piaciute poche cose: 1) Kean di nuovo a segno: significa che non porto sfiga, avendolo intervistato in settimana. Moise ha forza fisica e una buona tecnica, la testa sembra finalmente quella giusta. Il gol è nelle sue corde naturali. 2) La presenza contemporanea di sei italiani nella squadra di Allegri: Gatti, Fagioli, Locatelli, De Sciglio e Kean più, nella ripresa, Miretti al posto di Barrenechea che francamente mi sembra ancora acerbo. Ultimamente sei italiani su dieci - portiere escluso - li ritroviamo di rado in Nazionale. 3) Il senso del rischio ragionato proprio di Max. Che in vista della semifinale di coppa Italia e anche in funzione del finale di stagione ha risparmiato a lungo Vlahovic, Di Maria e Kostic. 4) Danilo. A destra, al centro, a sinistra e talvolta anche a centrocampo. Dove lo metti sta: è la soluzione di tanti problemi e un leader assoluto. 5) I primi venti e gli ultimi venti minuti del Verona, anche se non ha saputo approfittare dei cali di tensione della Juve che a centrocampo soffre di eccessiva lentezza.

Sarri ascoltatelo: ha ragione da vendere

Sarri è il garante del calcio: del calcio in cui siamo cresciuti, il calcio dell’interesse che non scemava mai, il calcio delle regole non modificabili ogni due per tre, quello in cui la partita era al centro di tutto e non uno strumento utilizzato esclusivamente per fare (altri) soldi e (tanti) danni. O per guadagnare voti. È proprio in questo richiamarsi e richiamarci continuamente ai valori e alle dinamiche originarie che risiedono la singolarità e anche la modernità di Sarri. Maurizio è l’unico che si sia ribellato fin dal primo minuto al Mondiale autunnale perché spezzava in due la stagione; non è l’unico, ma il più costante, censore della moltiplicazione “politica” degli eventi, l’abuso dei calendari. Sarri bisognerebbe ascoltarlo a tutti i livelli: istituzionale e mediatico. Non se ne può più di un calcio che mette a dura prova l’istinto di sopravvivenza della passione. «Se si va avanti così» ha detto alla vigilia della trasferta di Monza «tra dieci anni il calcio finisce». Tra dieci anni lui, uomo di rivolte minime ma di sicuro effetto, non allenerà più e penso proprio che sarà felice di non far parte di un mondo che dieci, quindici anni prima - grazie a Fifa, Uefa, sindacati inutili e federazioni pavide o vendute - aveva scelto di morire di arroganza, ingordigia e poltronismo.


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