Cinquantasette punti su 66, 64 gol stagionali, sempre a segno in campionato da metà agosto a inizio febbraio e c’è ancora qualcuno che pensa che l’Inter sia avvicinabile, ovviamente in assenza di epidemie di aviaria o di mucca pazza ad Appiano Gentile. La squadra di Inzaghi ha più qualità, più soluzioni, possiede più chiavi interpretative, più stabilità e esperienza. È la più forte: lo ripeto da mesi, e ci sono interisti che si offendono ritenendola una provocazione o il tentativo di sminuire la possibile impresa.
Presentata come la semifinale di uno Slam, Inter-Juve in qualcosa me l’ha ricordata: solo che Djokovic ha giocato da Djokovic, mentre Sinner sembrava quello dei primi due set con Medvedev in finale: temendo i lungolinea, il verticale, si è lasciato aggredire, a lungo sopraffare, raramente ha forzato il colpo. Abbandonate le metafore tennistiche e tornando a San Siro, sul campo ha prevalso il centrocampo di Inzaghi che è una combinazione perfetta di dinamismo e tecnica. Su tutti Calhanoglu che sta completando l’evoluzione pirliana: da trequartista a playmaker con una visione di gioco circolare, il corto e il lungo, uno spettacolo.
La Juve ha cominciato a muovere il pallone e avanzare soltanto nella ripresa nella quale naturalmente ha subìto numerose ripartenze interiste ed è stata spesso costretta a inseguire con affanno. Szczesny è stato più volte formidabile. Qualcosa ha pure creato, la Juve, ma non è stato sufficiente per meritare il pari. L’unico rimpianto che può coltivare è di aver perso per un’autorete di Gatti a difesa schierata. Yildiz è sparito nella partita: ci sta, è giovane, deve crescere per affrontare anche le serate sporche.
Ps. Quando l’uomo che ha Calhanoglu incontra l’uomo che non ce l’ha, quello che non ce l’ha può essere salvato solo da un asteroide.