Giordano: "Vincenzo D'Amico, dopo Diego solo tu"

L’ex centravanti della Lazio e del Napoli racconta il sodalizio con l'amico scomparso: "Glielo dicevo sempre: era quello che, tolto Maradona, mi ha fatto divertire di più"
Giordano: "Vincenzo D'Amico, dopo Diego solo tu"© BARTOLETTI
Fabrizio Patania
8 min

ROMA - Era la Lazio di Giordano e D’Amico, lo dicevi tutto d’un fiato, immaginando la maglia con l’aquila sul petto, inizio anni Ottanta, rimbalzata in modo ossessivo sui social attraversati in queste ore dal dolore e dalla nostalgia. Non solo gol e assist. Era un binomio legato da un sentimento unico di amicizia. Due fuoriclasse, centravanti e numero 10, a cui si aggrappava il popolo biancoceleste, dentro le difficoltà finanziarie della società, negli anni del sali e scendi dalla Serie B. Alle cinque del pomeriggio, dopo un giorno pieno di lacrime, Bruno ha trovato la forza per raccontare il “suo” Vincenzo, quello che lo aveva introdotto nello spogliatoio dei campioni d’Italia del 1974 sino a diventare il suo gemello per l’eternità. Un sospiro al telefono. «Le parole sono un casino. Cinquant’anni di vita, di amicizia, di appartenenza. Vincenzo era un buono. L’invidia e la cattiveria non sapeva dove fossero di casa. Era un puro, sincero, affettuoso con i figli, con me, con i miei figli. Sono stravolto dal dispiacere. Va raccontato per quello che è stato come persona, non solo in campo».

Cominciamo dagli ultimi momenti, sabato mattina al Gemelli. “Tanto amore intorno a te” ha scritto su Instagram.

«Ero lì e l’ho toccato con mano. I suoi figli, le donne che ha amato, Giancarlo Oddi, chi gli ha voluto bene. C’era tanto amore intorno al suo letto, quello che ha sempre cercato di dare lui, tenendo le sue famiglie unite. Mi è venuto spontaneo esprimere quel pensiero».

Lionello Manfredonia, appena arrivato al Circolo Canottieri Lazio sabato 10 giugno per il memorial dedicato a Pulici e Wilson, le aveva chiesto notizie di Vincenzo.

«Sì, sapevamo che non stava bene. Quando è venuto a mancare Pino, erano finite le cene che facevamo tutti insieme, ma non abbiamo mai smesso di cercarci e di sentirci al telefono. Quella mattina non aveva risposto, ogni tanto succedeva e allora mi sono illuso, dicendo a mia moglie: “Vedrai, ci fa una sorpresa e viene a vederci e salutarci”. Invece no. Le cose stavano cominciando a peggiorare. Sabato gli ho parlato per l’ultima volta, ma non recepiva. Gli dicevo “apri gli occhi, ti voglio bene”. Spero abbia captato una voce o una parola. Eravamo lì con Simona, con Matteo, con Rosario, sperando in un miracolo. Un’ora dopo, tornato a casa, ho saputo».

Vincenzo aveva il gusto della battuta.

«Giusto, ma sempre con intelligenza. Non era un superficiale. Non vorrei fosse ricordato come Peter Pan e basta. Aveva due palle così, altrimenti a 18-19 anni non sarebbe riuscito a prendersi il posto nella Lazio di Maestrelli. E poi doti tecniche straordinarie, che nessuno gli potrà mai levare. Penso a Beccalossi, Antognoni, Sala, Causio, Bruno Conti: i mostri sacri. Alcuni di loro potevano forse possedere più corsa e dinamismo, ma come classe cristallina e talento, penso Vincenzo fosse superiore. Dopo Maradona, è quello che più mi ha fatto divertire e con cui mi ha dato più gusto giocare. Glielo dicevo sempre: “Dopo Diego, ci sei te”. Bastava niente sul campo per capirsi. Intesa naturale, spontanea. A volte qualche cazzata l’abbiamo fatta anche noi. Ricordo una discussione in campo per una punizione e poi, a distanza di qualche anno, quei tre rigori ripetuti e sbagliati in Lazio-Napoli (3-2 il 21 aprile 1984). Lui voleva tirare, gli dissi di no, ma sbagliai due volte. Agnolin li fece ripetere e Vincenzo sbagliò il terzo. Ci abbiamo scherzato sopra una vita. Gli ho sempre detto di aver sbagliato l’unico certificato, i primi due non contavano».

E’ quasi strano mancasse D’Amico per il debutto di Bruno Giordano in A, Samp-Lazio a Marassi il 5 ottobre 1975.

«Credo si fosse fatto male in Coppa Italia, ma per dieci anni abbiamo giocato me lo sono goduto, giocando insieme a lui tantissime partite. Ricordo quella con il Boavista, fece qualcosa di sensazionale. Ci deliziava. Era abituato ad andare sul fondo e dentro l’area, con quel modo di fintare e di ritardare il cross. All’inizio gli dissi. “Non capisco quando metti il pallone”. Poi ho cominciato a comprendere quando era il momento in cui stava per dare l’assist e lui capì i miei movimenti. Nacque un’intesa meravigliosa. A Catania, segnai uno dei gol più belli della mia carriera, grazie a un suo assist. Vincenzo, quando c’era bisogno, si metteva la maglia e andava a sfidare tutti. Esisteva una simbiosi. Gli piaceva giocare e divertirsi, soprattutto con la maglia della Lazio. Ci aveva aperto le porte dello spogliatoio, il nostro passepartout. Parlo di me, di Agostinelli e di Manfredonia. Eravamo i più giovani e ci eravamo aggrappati a lui, il più vicino di età».

Giordano e D’Amico erano in campo a Como il 16 maggio 1976, una data indelebile nella storia della Lazio.

«L’ultima panchina di Maestrelli e la salvezza. Ho una foto bellissima che ritrae Vincenzo, il mister e Gigi Bezzi in un abbraccio. Era il mio primo anno in Serie A, ci ritrovammo a doverci salvare all’ultima giornata. In quella partita Re Cecconi giocò da solo contro il Como. Vincenzo mise in campo la sua classe e il solito modo di sdrammatizzare cinque minuti prima dell’inizio».

Una doppietta di Giordano e D’Amico all’Olimpico di fronte al Milan di Castagner, 1982/83, l’anno della promozione.

«Vincenzo pareggiò alla fine. Traversa e tap in per il 2-2. Era il nostro capitano, ci riportò in Serie A. Risultati importanti, centrati con una società che non navigava nel lusso. La gente laziale sperava che noi giovani potessimo garantire il futuro».

Nella stagione successiva, dopo la frattura del perone ad Ascoli, D’Amico la sostituì al centro dell’attacco.

«Giocò con il numero 9, segnando due gol nel derby contro una Roma stellare che sarebbe arrivata alla finale di Coppa Campioni. Ci tengo a sottolinearlo. E’ stato una delle grandissime bandiere senza macchia e senza peccato. Un laziale amato anche dai romanisti e dai napoletani. In quei tre o quattro mesi ci diede una grande mano sacrificandosi da centravanti. Rientrai e ci salvammo a Pisa, all’ultima giornata: segnai una doppietta, il 2-2 di testa su assist di Vincenzo».

L’ultima di Giordano con la Lazio è simbolica: 3-3 con la Juve all’Olimpico il 19 maggio 1985 e la staffetta con D’Amico, entrato al suo posto a pochi minuti dalla fine.

«Sapevo che non avrei più messo la maglia della Lazio, segnai due gol, un saluto amaro in fondo a una stagione pessima, disgraziata, chiusa con la retrocessione. Ci unì, in quella circostanza, il cambio. Io uscivo, lui entrava. Non ricordo se provò a trattenermi, ma non c’erano le condizioni. La società doveva vendere. Il mio cartellino costava 4,5 miliardi, chiesi ad Allodi di pagarne 5 per portarmi a Napoli e cercare di aiutare la Lazio».

Peccato non avervi visto insieme in Nazionale.

«Con l’Under 23 mi aveva anticipato, era più grande di due anni. Diciamo che le presenze azzurre sono state poche, soprattutto per Vincenzo. Contava la concorrenza. Bruno Conti, Causio. Forse avrebbe potuto giocare i Mondiali ‘82, era uno dei più amati del calcio italiano. Piaceva a Bearzot, ma preferiva giocare a sinistra, non a destra. S’impuntò e credo influì nella scelta definitiva. Il ct puntò su Conti che in Spagna fece cose incredibili. Gli ho sempre detto che la sua disgrazia è stata aver vinto lo scudetto troppo presto, a 19 anni. Se non vinci, lotti ancora di più. Ha toccato l’apice a inizio carriera, forse gli bastava, ma è stato un artista di una grandezza assoluta».

Come lo vorrebbe salutare?

«Nell’unico modo possibile. “Fratè, sai che ti voglio bene”».


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