Aprire i cancelli del centro sportivo di Formello, alla vigilia del derby, è stato un magnifico ritorno alle origini: l’idea veniva spesso anche a Sven Goran Eriksson, svedese di Torsby e romano di adozione, quando intuiva che la Lazio dei campioni - di Nesta e Mihajlovic, Mancini e Nedved, Simeone e Boksic, Salas e Veron, Almeyda e Sergio Conceição - aveva bisogno di respirare le emozioni, l’amore e gli umori del popolo biancoceleste per entrare nel clima giusto di una partita. Era un appuntamento quasi rituale, come le grigliate di carne che organizzavano gli argentini davanti alla foresteria: il football-ranch di Cragnotti diventava la casa dei tifosi, una zona più trafficata di piazza di Spagna, con le macchine parcheggiate in seconda fila. Il calcio non era solo tattica e schemi, in quegli anni, così come oggi non può passare il principio che il pallone dipenda esclusivamente dai computer e dagli algoritmi, dai tablet e dalle statistiche. In un mondo che viaggia alla velocità della luce e delle mode, sempre in evoluzione, possono cambiare i metodi di preparazione atletica, le maglie, gli sponsor, i giocatori, i moduli, gli allenatori, i presidenti, ma è ancora il legame affettivo tra una squadra e il proprio pubblico a nutrire il sistema e a generare la differenza. Sarri ha eliminato la Roma di Mourinho dormendo poco, fumando i soliti tre pacchetti di sigarette al giorno, studiando diverse varianti a causa delle assenze di Immobile e Luis Alberto (in grado solo di accomodarsi in panchina dopo l’infortunio agli adduttori) e accettando il rischio di puntare su un portiere esordiente come Mandas, classe 2001, che fino a maggio giocava in Grecia nell’Ofi Creta.