C ’è un uomo solo al comando della Lazio. No, non è Fausto Coppi. Il suo nome è Marco Baroni. E quando scriviamo “solo”, intendiamo che ci appare un uomo messo un po’ in disparte, non al centro della scena dove invece meriterebbe di stare. Insieme ai complimenti e alle congratulazioni per la stagione che sta facendo vivere alla Lazio e ai suoi tifosi. L’allenatore dei biancocelesti è la conferma che oggi anche nello sport i risultati da soli non contano più. I tecnici, così come gli atleti, sono imprenditori di sé stessi. E devono curare la propria immagine. La propria forza mediatica. Se non lo fanno, rischiano di essere travolti da un ingranaggio che ormai solamente gli ingenui possono considerare di secondaria importanza. Non si spiega altrimenti la paradossale situazione in cui si trova l’allenatore della Lazio.
Baroni fu chiamato da Lotito lo scorso anno dopo la mediocre stagione che si chiuse al settimo posto passando da Sarri a Tudor, con il brevissimo interregno di Martusciello. Lotito andò a pescare in provincia (a Verona) questo gentiluomo del pallone, 61 anni, che nella sua carriera ha vinto due campionati di Serie B (a Benevento e a Lecce) e che lo scorso anno portò il Verona al 13esimo posto nonostante una burrasca societaria che avrebbe messo in ginocchio chiunque. Accolto da una massiccia dose di scetticismo (e ci teniamo bassi), considerato non all’altezza delle ambizioni della piazza, Baroni non ha fiatato. E quel po’ di parole le ha pronunciate com’è nel suo stile: a bassa voce, con pacatezza ed educazione. E ha dimostrato che si può essere al tempo stesso persone perbene e ottimi allenatori.
Come del resto i laziali sanno benissimo, avendo avuto la fortuna di vivere Tommaso Maestrelli toscano anomalo proprio come Marco. Baroni ha portato la Lazio dove nessuno si aspettava potesse arrivare. Le ha fatto vivere una stagione da protagonista, sia in campionato sia in Europa dove ha chiuso al primo posto il girone di Europa League per poi subire la cocente delusione dell’eliminazione ai quarti di finale con il Bodø/Glimt. Ha gestito con maestria gli addii di Immobile e Luis Alberto due calciatori non proprio banali per la storia del club. E non si può dire che abbia ricevuto in dote una campagna acquisti da urlo. Tchaouna, Noslin, Dele-Bashiru, Dia (che fin qui si è rivelato non all’altezza delle aspettative) e Nuno Tavares. Come dire, bene ma non benissimo. Non ha fatto una piega. La sua Lazio ha offerto calcio godibile, pur senza lasciarsi irretire dalla trappola egotica del gioco fine a sé stesso, e ha ottenuto risultati. Sì, non sempre tutto è girato per il verso giusto. Uscire ai rigori col Bodø è ovviamente ancora una ferita aperta.
Così come lo sono alcune sconfitte che hanno fatto particolarmente male. Il derby dell’andata, quel 2-0 che ha contribuito a rilanciare la Roma di Ranieri. Ma anche le due goleade. Lo 0-6 incassato dall’Inter all’Olimpico. E il 5-0 di Bologna, con la squadra in balia degli uomini di Italiano. Citiamo anche la Coppa Italia finita ai quarti contro l’Inter. Ma sfidiamo chiunque a rintracciare qualcuno che la scorsa estate puntasse sulla Lazio ancora in corsa per la Champions a due giornate dalla fine. Perché la Lazio è quarta in classifica. In condominio con la Juventus dell’ex Tudor. Sì, se dovesse chiudere a pari punti con i bianconeri, finirebbe quinta per gli scontri diretti. Così come è giusto ricordare che il calendario non è dalla sua parte. Ma stasera a San Siro i biancocelesti non vestiranno certo i panni della vittima sacrificale. A Milano hanno già vinto, sia pure contro i rossoneri. L’Inter è la possibilità che ha Baroni di mettere a segno una serata da circoletto rosso per i tifosi. Contro Simone Inzaghi che è sì una bandiera della lazialità. Ma non sono pochi quei laziali che non