Maradona, Ferlaino: "Sono stato il suo carceriere"

Lo ha voluto, lo ha difeso: "Strappai l’assegno di Tapie, ma sapevo che presto sarebbe finita"
Maradona, Ferlaino: "Sono stato il suo carceriere"
Antonio Giordano
4 min

NAPOLI - «Ingegnere, ho bisogno di lei...». Mentre il mondo è già in lacrime, perso nel labirinto della propria memoria, Corrado Ferlaino è accerchiato in una stanza, con voci che s’avvertono distinte, e chiede a chi inconsapevolmente lo sta trascinando nel dolore qualche attimo di pazienza: «La richiamo io, mi dia dieci minuti, sono in una riunione. Mi dica però di cosa ha bisogno?». Le parole sono seriamente come pietre, a volte, e si può cercare di dosarle o di provare a un approccio morbido, ma dopo aver chiesto se ha saputo di Diego, («cosa è successo, mi dica?») non c’è modo di demolire la sofferenza che sta per germogliare tra i vicoli luminosi di quella Napoli indimenticabile che ora si fanno largo tra i pensieri sparsi. «Ho bisogno di tempo, mi scusi...». Mentre la nebbia cala sui ricordi, Corrado Ferlaino si prende mezz’ora per starsene da solo, lui e Diego, e ripercorrere, passo dopo passo, sette anni e due scudetti e la Coppa Uefa e la Coppa Italia e la Supercoppa e quell’amore frastagliato, e Barcellona e Marsiglia. «Ma lui è stato la mia vita e quella di Napoli».

E cos’altro ancora, ingegnere?

«La notte del secondo scudetto, su quella nave, a Castel dell’Ovo, mentre godevamo lo spettacolo dei fuochi a mare. E le visite private, rimaste un segreto, che mi faceva, nei primi anni, fino a quando non arrivò Tapie che cercò di portarmelo via».

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Ma la prima volta, fu un incontro surreale.

«Jorge Cysterpiller, il suo manager, mi portò a casa di Maradona a Barcellona. Ci furono lunghi silenzi e ci dicemmo pochissime parole: lui imbarazzato per essere davanti al presidente del Napoli e io timido perché a confronto con quello che sarebbe diventato il calciatore più forte del Mondo e di tutti i tempi. Lo sentivamo che stavamo per realizzare il colpo del Secolo, bastava vederlo giocare. E poi era sufficiente averlo di fronte, leggergli negli occhi quel desiderio sfrenato di mostrare chi fosse. Per questo dico: non si alimentino dualismi o paragoni: non c’è stato un altro Diego e mai ne nascerà uno che gli somigli».

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Finiste per litigare.

«Ho detto e lo ripeto: sono stato il suo carceriere. E un genio del genere, ad un certo punto, ovviamente vuole essere liberato dai lacci o da quella che sembra sia diventata una prigione. Cerca nuove ispirazioni in altre terre. Da Marsiglia, Tapie mi disse: ti mando l’assegno firmato, ci metti tu la firma. E io, quando arrivò la busta strappai tutto. Non mi interessava venderlo, non avevo alcuna intenzione, anche se intuivo che quell'epoca prima o poi sarebbe finita. Ma ce la siamo goduti finché abbiamo potuto ed abbiamo rivinto pure il campionato». [...]

Leggi l'intervista completa nell'edizione odierna del Corriere dello Sport - Stadio


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