Napoli, il prezzo è troppo alto

Leggi il commento del Direttore del Corriere dello Sport-Stadio

È questo il prezzo - reso intollerabile da interessi da usura - di uno scudetto a Napoli, il costo di una festa attesa per trentatré anni. La città l’ha pagato in pochi mesi: tramontato sul nascere il sogno dell’apertura di un ciclo. Se a inizio giugno ci avessero prospettato un esito simile non ci avremmo creduto. Presto fatto il conto: fuori dalla Champions agli ottavi con un Barcellona resistibile. E di conseguenza escluso anche dal Mondiale per club del 2025. Fuori dalla coppa Italia per merito di una candidata alla retrocessione, il Frosinone. E - infine l’amaro del capo - presenza quasi marginale in campionato con quei 31 punti di distacco dal vertice accumulati in 28 giornate: è come se l’Inter ne avesse recuperati 49 in soli otto mesi. Le cose migliori nell’anno peggiore il Napoli le ha mostrate proprio in Champions, affrontata con le tre diverse guide: Garcia, Mazzarri e Calzona. Quest’ultimo non si è arreso all’uno-due in diciassette minuti del Barcellona e ha tenuto viva la partita fino all’85esimo con un Napoli bello, vivo, presente, purtroppo a lungo privo del miglior Kvara e di Osimhen, limitato da se stesso (non ha fatto un movimento giusto) oltre che da un ragazzo che ha compiuto 17 anni meno di un mese fa, Pau Cubarsi. All’interno della partita c’è stato anche un rigore richiesto per un intervento su Osimhen: ma lo step on foot è punito dalle nostre parti mentre in Europa non c’è foot o step che tenga. È il nuovo calcio dissociato. Considerati i progressi della squadra con Calzona, mi sono fatto un’idea chiara sul valore della continuità e del rimpianto.


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Il tuo giornalista lo decido io

Da lunedì scorso so di poter scrivere e parlare soltanto di Zirkzee e Ferguson, Urbanski e Fenucci: non che la cosa mi dispiaccia, tutt’altro, ho però il fondato sospetto che a quelli che... il calcio italiano sia scesa la catena. Giorni fa Claudio Lotito ci ha definiti “il Corriere di Trigoria”, ritenendoci filoromanisti e - aggiungo - sbagliando anche il foglio, dal momento che l’articolo a lui sgradito e che probabilmente non aveva letto era stato pubblicato da un altro Corriere, quello della Sera. Non abbiamo replicato considerandola una delle sempre più numerose battute infelici del Senatore. Poi è stata la volta di Aurelio De Laurentiis: fresco di successo sulla Juve, con il linguaggio colorito che gli è proprio il presidente del Napoli ha trovato il modo di vietare ai suoi di parlare con Dazn, piattaforma che versa centinaia di milioni per i diritti (silente la Lega). E due giorni fa lo stesso De Laurentiis ha democraticamente strappato Politano a Ugolini di Sky colpevole, secondo lui, di essere laziale. Una passione imperdonabile, immagino. «Puoi parlare solo con Gianluca Di Marzio» ha spiegato al giocatore, in onore dell’inimitabile padre Gianni che il Napoli ha allenato. Si moltiplicano insomma i presidenti che pretendono di ottenere il cronista di riferimento, possibilmente con tre metri di lingua vellutata. La colpa è dei giornalisti: negli anni molti di noi si sono schierati apertamente con la squadra del cuore diventando organici alla stessa. Sui social si registra il trionfo del leccaculismo artistico. Da sempre mi dichiaro poco obiettivo, ma tendenzialmente onesto: i miei partiti cambiano spesso casacca - e io con loro, naturalmente - e si chiamano Allegri, Mourinho, Ancelotti e Capello, per 40 anni Mancini, e l’indimenticabile Sinisa e Giampaolo, professionisti che portano sul campo il calcio che amo di più. Per non parlare di Baggio, per quindici anni mio riferimento unico e imprescindibile. Sono stato di volta in volta interista, juventino, romanista, laziale, bresciano, fiorentino, milanista e di riflesso “anti” una serie di club. La verità è che una sola squadra può contendere una fetta del mio cuore al Bologna ed è il Napoli. Pertanto, caro Ugolini, la prossima volta che vorrai intervistare un giocatore di DeLa fammi uno squillo. Intercederò volentieri. Non garantisco sugli effetti.


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È questo il prezzo - reso intollerabile da interessi da usura - di uno scudetto a Napoli, il costo di una festa attesa per trentatré anni. La città l’ha pagato in pochi mesi: tramontato sul nascere il sogno dell’apertura di un ciclo. Se a inizio giugno ci avessero prospettato un esito simile non ci avremmo creduto. Presto fatto il conto: fuori dalla Champions agli ottavi con un Barcellona resistibile. E di conseguenza escluso anche dal Mondiale per club del 2025. Fuori dalla coppa Italia per merito di una candidata alla retrocessione, il Frosinone. E - infine l’amaro del capo - presenza quasi marginale in campionato con quei 31 punti di distacco dal vertice accumulati in 28 giornate: è come se l’Inter ne avesse recuperati 49 in soli otto mesi. Le cose migliori nell’anno peggiore il Napoli le ha mostrate proprio in Champions, affrontata con le tre diverse guide: Garcia, Mazzarri e Calzona. Quest’ultimo non si è arreso all’uno-due in diciassette minuti del Barcellona e ha tenuto viva la partita fino all’85esimo con un Napoli bello, vivo, presente, purtroppo a lungo privo del miglior Kvara e di Osimhen, limitato da se stesso (non ha fatto un movimento giusto) oltre che da un ragazzo che ha compiuto 17 anni meno di un mese fa, Pau Cubarsi. All’interno della partita c’è stato anche un rigore richiesto per un intervento su Osimhen: ma lo step on foot è punito dalle nostre parti mentre in Europa non c’è foot o step che tenga. È il nuovo calcio dissociato. Considerati i progressi della squadra con Calzona, mi sono fatto un’idea chiara sul valore della continuità e del rimpianto.


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