Mourinho e il diritto di critica

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Alessandro Barbano
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È un Mourinho in versione Catullo, che proclama amore e odio per Berardi e diffida degli arbitri. Se il procuratore federale avesse letto un bel libro di Milan Kundera, intitolato “La vita è altrove”, saprebbe che la crudeltà dei poeti è come il canto delle sirene. Basta tapparsi le orecchie. Invece la giustizia sportiva abbocca alle trappole del furbo affabulatore portoghese e lo inquisisce, scoprendo il volto anacronisticamente illiberale del calcio italiano. La sharia che lo regola vieta a un tecnico di dire: «L’arbitro mi preoccupa, perché ho la sensazione che non ha la stabilità emozionale sufficiente per una partita di questo livello». E come si permette lo Special di mettere le mani avanti, invocando una legittima suspicione nei confronti del direttore di gara Matteo Marcenaro, che quattro volte ha incrociato fin qui, e tre volte ha rimediato per sé e per il suo staff espulsioni, ammonizioni e squalifiche?

La reattività bigotta del tribunale del sistema

Si dirà che la collezione di sanzioni dell’allenatore è così ricca da non fare di questa casistitica un’eccezione. Di cartellini giallo-rossi Mou ne ha presi talmente tanti da perdere il conto. Ciò non toglie che il primitivismo culturale del sistema sta tutto nella reattività bigotta del suo tribunale. Che censura il diritto di critica come un’eresia. Ma davvero non si può esprimere preoccupazione per una designazione? Davvero non si possono mettere in discussione l’esperienza, la tenuta emotiva di un arbitro di fronte a un incontro di particolare rilievo? Davvero il procuratore Giuseppe Chiné, la cui prestigiosa carriera spazia tra il diritto privato, quello amministrativo e quello penale, vuole intingere la spada della sua giustizia nel calamo dell’intransigenza morale?

A ciò si aggiunga che l’inchiesta federale, per come è stata concepita, si presta a essere letta come una rappresaglia corporativa. Perché i giudizi più pesanti di Mourinho non sono per Marcenaro, ma per Berardi, accusato di prendere in giro e destabilizzare il gioco, cioè di slealtà sportiva. Perché gli arbitri meritano tutela e i calciatori no? Non sono i processi alle parole, alle emozioni, o alle intenzioni che fanno il calcio più bello e più pulito. Se un contributo può chiedersi a un giurista di razza come Chiné, prestato alla procura federale, è quello di rendere le fattispecie più chiare e fondate su condotte e fatti definiti.

Alle “chiacchiere” ci pensiamo noi, ma senza sanzionare nessuno. Perché la democrazia, anche quella sportiva, tollera la critica, la provocazione, e quel pizzico di veleno che talvolta le parole portano nel dibattito pubblico. Criminalizzare le parole è da sempre la tentazione dei regimi.


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