Udinese, le rivincite di Cioffi: "Non c'è nulla di impossibile"

L'allenatore bianconero in esclusiva: "Non esistono solo gli obiettivi: bisogna dare gioia a chi guara. A Udine c’è il cocktail perfetto e dopo tante partite durissime vogliamo ripeterci con l’Inter"
Udinese, le rivincite di Cioffi: "Non c'è nulla di impossibile"© LAPRESSE
Marco Evangelisti
11 min

Dice che è pronto a parlare, però in videochiamata. Vuole guardare in faccia l’interlocutore. Peggio per lui. Gabriele Cioffi, invece, di faccia il suo bell’effetto lo fa. Un po’ Adam Driver, un po’ professor Piton di Harry Potter, ma con quell’infarinata di ironia esistenziale di cui nei due non c’è traccia. Quando si diverte, guarda un angolo del soffitto e incurva verso l’alto un angolo della bocca. Non c’è da meravigliarsi che i suoi giocatori lo apprezzino quando parla loro di mutazione genetica e sangue da sputare. All’Udinese fa così e funziona: 13 punti nelle ultime 6 partite, e 27 totali in 18 gare con una media di 1,5. Lì hanno tenuto un passo simile solo Zaccheroni, Spalletti e Guidolin. Gli manca la conferma ufficiale in panchina per la prossima stagione. «Ci sono buone prospettive», sogghigna Cioffi, e alza un angolo della bocca. La coppia Beto-Deulofeu è diventata la quarta del campionato. La Fiorentina non ha ancora capito che cos’è successo, anzi sì: ne ha presi quattro in casa. L’Inter arriva domani e ha i suoi pensieri per la testa. «Ma che una grande perda con il Bologna, che gioca bene, non è poi così strano», spiega Cioffi, e tiene giù gli angoli della bocca.

Sul serio: l’Inter sarà infuriata. 

«Una partita difficilissima. Ma di recente non me ne ricordo di facili: la Fiorentina si sta giocando le coppe europee, la Salernitana i punti di una speranza inattesa». 
 
Potreste dare il colpo di grazia alla corsa per lo scudetto.

«Noi proviamo sempre a vincere. Vincere mi piace. Mi piace leggere, ma non troppo a lungo. Mi piace ascoltare la musica, ma non poi tanto. Amo vincere perché è difficile. Anche a Firenze, abbiamo giocato bene sia noi sia loro. La Fiorentina poteva segnare e invece ha segnato l’Udinese. Eravamo più liberi di testa, più pronti. Il calcio è semplice». 
 
Semplice quanto? Siamo nell’epoca del gioco scientifico e della costruzione dal basso. 

«Esistono allenatori che plasmano la squadra a propria immagine e somiglianza. Saranno tre in tutto il mondo. Gli altri devono leggere il materiale umano della rosa e trovare il modo migliore di utilizzarlo. Su queste basi si può sperimentare, come no. E mettere in conto che, qualsiasi approccio si scelga, c’è sempre l’errore in agguato». 
 
Tipo quello di Radu a Bologna. Lei come descriverebbe il calcio che sta giocando a Udine? 

«Tentiamo di attirare la squadra avversaria, per poi andare in profondità a cercare lo spazio. Questo sul piano tattico. Se parliamo di principi, io ai miei chiedo soprattutto una cosa: che chi ci guarda gioisca. Mi piace un calcio propositivo, aggressivo, guidato da una logica che è la mia. Si va in campo non solo per gli obiettivi, ma soprattutto per lasciare il segno. Voglio che in campo si sputi il sangue e che al momento di uscire nessuno di quelli che hanno pagato per vedere la partita ti possa dire niente. I risultati vengono di conseguenza». 
 
Si è accorto che con queste idee ha bastonato uno degli allenatori emergenti di cui si parla di più, praticamente suo coetaneo? 

«Provo grande ammirazione per quello che Italiano e il suo staff stanno costruendo alla Fiorentina. Non saprei che cos’altro dire. Io e lui ci siamo stretti la mano prima dell’incontro. Alla fine stavo andando a salutarlo, ma ho visto che aveva raccolto i giocatori intorno a sé e parlava con loro. Ho lasciato perdere. Questione di rispetto». 
 
Cioffi, sembra quasi che i quattro gol di Firenze non l’abbiano minimamente emozionata. 

«Scherza? Sono di Firenze, la mia famiglia vive lì, in tribuna c’erano mia madre, mio fratello, la compagna di mio fratello, cugini e parenti. Altro che emozione». 
 
Ma infatti a occhio lei sembra uno intenso nel gioco, nel lavoro e in tutto il resto. 

«È che so da dove vengo e non ci voglio tornare. A ventitré anni mi ero già fatto tre crociati. Ero senza contratto in Serie C e mi raccontavano che non sarei mai tornato a giocare. Mia madre mi diceva: studia. Mio padre voleva vedermi in ditta insieme con lui. Contro tutti i pronostici sono rimasto diciassette anni tra i professionisti. A trentuno anni ero in Serie A. Dopo che mi era saltato il legamento di una caviglia, beninteso. Zaccheroni mi fa esordire e dopo un quarto d’ora ho uno zigomo rotto. Invece di uscire gioco novanta minuti. Quando ho rivisto Zaccheroni mi ha ricordato quell’episodio e mi ha detto: lavora, insisti che ce la fai. È una delle due frasi che stanno lì a farmi da luce guida. L’altra è di Guidolin: se alleni l’Udinese, in un mese la fai diventare la tua squadra».  
 
Una profezia più che una sentenza. 

«A Udine ci sono tutti gli ingredienti del cocktail che ho in mente: passione, entusiasmo, impegno, staff tecnico, staff medico, competenza dal magazziniere all’addetto stampa. Strutture impressionanti, il livello di scouting internazionale che conosciamo tutti. Se mancasse qualcosa, la ciambella non verrebbe con il buco. Pensavo di arrivare in una città fatta di grigio e industrie. Ne ho scoperta una bellissima e tutta diversa. Mi sono innamorato del Friuli. Adesso a Pasqua raduno la famiglia, nonni e zii compresi, e la porto qui. Ho capito perché a tutti viene voglia di sputare il sangue per vincere». 
 
E Gotti? 

«Quando lo hanno esonerato e hanno offerto la panchina a me, che ero il suo secondo, gli ho parlato. Gli ho spiegato che non me lo aspettavo e che avevo intenzione di accettare. Da gentiluomo qual è, mi ha detto in bocca al lupo. Credo abbia capito». 
 
Perché non avrebbe dovuto? 

«Perché viene facile pensare che gli abbia fatto le scarpe. E io non ci sto. Sono una persona pulita. Lavoro per l’Udinese ma non ho mai avuto rapporti diretti con il direttore sportivo e il presidente». 
 
In realtà sembra una scelta logica. Lei ha pure quel gusto dell’avventura che non guasta, in questi casi. Ha lavorato in Australia, in Inghilterra, in Arabia. 

«Il gusto dell’avventura arriva dalle porte sbattute in faccia. Quando ti esonerano e per cinque o sei mesi il telefono non squilla. Sono scappato per salvarmi il futuro. In Australia per lavorare con i giovani, ad Abu Dhabi per fare l’assistente all’Al-Jazira. Nel frattempo avevo scoperto l’Inghilterra, grazie a Gianfranco Zola e al suo Birmingham. È da lì che mi viene l’etichetta di sarrista, per le analogie tra il gioco di Zola e quello di Sarri. Ho capito subito che Premier e Championship non erano alla mia portata, allora. In quarta serie con il Crawley Town ho vissuto un sogno. Nelle coppe abbiamo battuto Norwich e Stoke City. Nessun club della nostra categoria ne aveva mai superato uno di Premier». 
 
Ma poi è tornato. 

«Prima di lasciare l’Italia riflettevo sui problemi del Paese. Mi sembrava che mollare tutto fosse l’unica soluzione. Mentre vivevo all’estero mi sono reso conto di quanto rispetto meriti l’Italia. Con tutti i suoi difetti, con tutte le sue difficoltà. Ovviamente non rimpiango nulla delle mie avventure. Anzi, credo mi abbiano salvato dallo shock dell’impatto con l’Udinese. Arrivi qui e ti trovi a dover parlare inglese con il giocatore danese o francese con il giocatore che viene dalla Costa d’Avorio. Altri avrebbero potuto anche trovarsi in difficoltà. E poi c’è un’altra faccenda che mi piacerebbe sottolineare». 
 
Vada avanti. 

«Cortés salpava con le sue navi e dopo anni forse tornava. Mi sentivo così. Pronti, via e stavo fuori otto o nove mesi, poi altri otto o nove da un’altra parte. Nulla di tutto questo sarebbe stato possibile se mia moglie Fabiana non avesse accettato di prendersi cura dei nostri figli e di sopportare le mie assenze. Non è un pilastro della mia vita, è l’unico pilastro». 
 
Non tutti condivideranno la sua percezione del calcio professionistico come sacrificio e sofferenza. 

«O vai sempre a duecento o resti indietro. Spesso a giocare si fa uno sforzo immane, una fatica da vomitare. Se non ti poni obiettivi, se non li condividi con i compagni e non fai di tutto per raggiungerli, alla fine molli ed è finita. Noi stiamo andando bene perché siamo tutti disposti a tenere, ad arrivare fino in fondo. L’allenatore dev’essere l’ultimo a mostrare cedimenti. Ecco perché, nonostante la posizione di classifica, continuiamo a spingere». 
 
E i giocatori le danno retta. 

«Mio nonno diceva sempre: la differenza tra un guru e un pazzo è che se il guru gira nudo per strada in cento si spogliano e gli vanno dietro». 
 
A proposito di frasi celebri: è vero che la invitavano a lasciar perdere con il calcio perché la ritenevano troppo alto? 

«Oh, quello era il rimprovero più gentile che mi rivolgevano». 
 
Bizzarro. Oggi i difensori centrali di un metro e novantasei valgono platino. 

«Beh, sono anche passati trent’anni». 
 
E in questi trent’anni che cosa ha imparato? 

«Che tutto è molto difficile. E niente è impossibile se non vincere sempre e vivere per sempre». 
 
Com’era la storia della maglietta di Torino? 

«Quella con la scritta “Cioffiducia”? È nata da uno striscione che girava a Mantova. Quando sono andato al Torino, con mio fratello cercavamo un modo di aiutare chi ne aveva bisogno. Un amico, Francesco Vannini, ebbe l’idea della T-shirt. Ne vendemmo parecchie e con i proventi realizzammo un dispensario in Africa». 
 
Si ricorda quanto fruttò l’iniziativa? 

«Abbastanza per realizzare un dispensario in Africa». 

Cioffi, lei che sente di aver viaggiato quanto Cortés: perché il calcio italiano ha perso tanto terreno? 

«Perché abbiamo smesso di investire. Perché non troviamo il coraggio di azzerare tutto e ricominciare da capo. Perché troviamo sempre scuse per non fare. E perché parliamo sempre dei problemi e mai delle soluzioni». 


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