Paolo e le donne, tante. Paolo e la politica, con i suoi dubbi, le contraddizioni evidenti, la voglia di partecipare, i premi in denaro - per ogni gol che segnava - da trasformare in abbonamenti al “Quotidiano dei lavoratori” . E poi la passione per il calcio, naturalmente, gli anni di Perugia, il pessimo rapporto con Castagner, chiamato Veronelli come il celebre critico enologico di quei tempi («noi in trasferta ficcati in alberghi assurdi, tetri, isolati, e lui il sabato sera a cena con i dirigenti»), gli scontri con la stampa, rea di averne fatto velocemente un personaggio, un “diverso” ad una sola dimensione, i pochi amici in squadra - tra questi, Walter Sabatini, «non è un compagno, però vive “alla come viene”, sul momento, senza troppi paraocchi» - e i tanti nemici tra gli avversari, come quel terzino dell’Ascoli, Legnaro, che lo prende a calci e gli dice, “Ma vai a fare i comizi”. E poi succede che alla fine segna Novellino, il Perugia vince e Sollier si rivolge beffardo al suo marcatore: «Comizio riuscito!». Paolo Sollier, quello del pugno chiuso dopo una rete all’Atalanta, nel 1976 si raccontò in questo ancora incredibile libro, appena ristampato, il romanzo di due stagioni in Umbria, con la vittoria del campionato di serie B e la prima storica partecipazione dei biancorossi alla serie A. C’è il calcio di mezzo secolo fa, “quello con il portiere murato in porta - scrive Renzo Ulivieri in una affettuosa prefazione - e il libero staccato di venti metri, catenaccio e contropiede, giocare la palla in avanti senza tanti fronzoli”, con i suoi ritiri estivi, la squadra portata al cinema il sabato, il timore sempre presente di venire ceduto senza essere neanche avvertito, come avviene alla fine del libro allo stesso Sollier, che scopre per caso di essere passato al Rimini. Mentre lui ama le poesie, legge Garcia Marquez, discute Cassola e Pasolini, reclama prezzi più bassi per chi va allo stadio e contesta l’Associazione calciatori, scherza sul presidente del Perugia D’Attoma, detto Penna Bianca, e litiga con i tifosi della Lazio, che all’Olimpico espongono lo striscione, “Sollier boia”. “Leggendo il libro - scrive ancora Ulivieri - ho riso e ho pianto. Ho riso perché ho ritrovato il sogno, ho pianto perché mi sono guardato intorno e ho visto che il sogno non c’è più”.
CALCI E SPUTI E COLPI DI TESTA, di Paolo Sollier; Mimesis Edizioni, 120 pagine, 12 euro.
Il basket americano visto attraverso le vicende di due (anzi tre) grandi personaggi, che ne hanno scritto pagine importanti. Cominciamo dall’opera di Goldman Ward, nome forse poco conosciuto per chi non è proprio un esperto di cose di basket, ma che è stato uno degli amici più importanti nella breve vita di Kobe Bryant. Un sodalizio nato in Italia, quando i due avevano 11 anni e giocavano nella squadra giovanile di Reggio Emilia, dove Christopher - nato a Varese da padre americano e madre italiana - si era trasferito con la famiglia mentre Kobe aveva seguito la carriera del padre Joe, giocatore professionista anche lui (in quegli anni alla Pallacanestro Reggiana). Un libro che è un atto d’amore, un bel racconto di una amicizia che ha resistito al tempo e alla distanza (Goldman Ward è architetto e vive in Italia). In queste pagine non ci sono quindi statistiche o ricordi dei trionfi dei Lakers, ma pagine emozionanti sui lati meno conosciuti del campione che ci ha lasciato due anni fa, del giovane Kobe più che del campione Bryant. La rivalità - solo sportiva - tra i due ragazzi, con la consapevolezza che il piccolo Bryant avesse una straordinaria carriera davanti a sé, gli incontri, una volta diventati grandi, tra limousine e guardie del corpo, la sorpresa di farsi trovare - e riconoscersi - in tribuna allo Staples Center, durante l’ultima stagione agonistica del campione. «Si dice che non avesse amici e in un certo senso è vero: sono convinto che Kobe Bryant, il Black Mamba, non ne avesse. Kobe il reggiano, invece, ne aveva eccome». Con una bella introduzione di Federico Buffa.
Spostiamoci ora qualche anno più indietro, alla saga dei Chicago Bulls che chiuse il ventesimo secolo, così legato al nome di Michael Jordan e alla recente “The last dance”, la serie televisiva di grandissimo successo di Netflix, molto concentrata sulle prodezze del grande numero 23 dei Bulls. Ecco, sembra proprio che assistendo a una di quelle puntate («celebravano tutte la grandezza di Michael Jordan, mentre io e i miei compagni di squadra restavamo un po’ troppo nell’ombra») a Scottie Pippen, un altro dei protagonisti di quella magnifica serie vincente - sei trionfi in otto stagioni, tra il 1990 e il ’98 - sia venuta l’idea di scrivere questo libro, con l’aiuto di Michael Arkush, sportswriter di successo, che oltre al basket si è occupato anche di pugilato e golf. Pippen cerca di scrollarsi la sindrome del numero 2, sempre un passo indietro all’ingombrante Jordan, celebrando le qualità sue e degli altri componenti il gruppo di Chicago, da Rodman al coach Jackson, ma le pagine più interessanti sono forse altre, da quelle sulla poverissima infanzia dei dodici fratelli Pippen agli scontri di puro fisico con i duri di Boston, dalle avventure del Dream Team (Scottie ha vinto due medaglie d’oro) al confronto impossibile con Golden State per arrivare al leggendario canestro di Toni Kukoc a 1,8 secondi dalla fine, nel 1994 contro New York, che costò al nostro l’accusa di razzismo. «Penso a quel ragazzino pelle e ossa di Hamburg, Arkansas, che non aveva niente tranne un sogno, penso a Pine Street e al campetto sterrato nel cortile di mia nonna. E a quella voce che ho sempre portato con me: “Forza, Pip. Puoi farcela”».
IL MIO KOBE, l’amico diventato leggenda; di Christopher Goldman Ward, Edizioni Baldini+Castoldi, 160 pagine, 17 euro.
UNGUARDED, la mia vita senza filtri; di Scottie Pippen con Michael Arkush, Rizzoli Editore, 380 pagine.