Yoko nata due volte: Le cicatrici sono la mia pelle ma i piedi forse li vorrei

Veronica Yoko Plebani atleta paralimpica, bronzo a Tokyo nel triathlon, porta i segni profondi di una meningite fulminante che le ha tolto qualcosa non la vita. "Sapevo che stavo morendo, ma non ci ho mai creduto". A 25 anni è protagonista di un documentario su di lei, "Corpo a corpo" di Maria Iovine. Una giovane donna, curiosa, solare e dagli occhi limpidi e profondi come il mare. E questo è il suo straordinario racconto
Yoko nata due volte: Le cicatrici sono la mia pelle ma i piedi forse li vorrei
Valeria Ancione
16 min

di Valeria Ancione

Una che vince la vita due volte ha vinto tutto. E’ nata e rinata Veronica Yoko Plebani che a 15 anni ha fatto a botte con una maledetta meningite e a 25 è regina dell’atletica paralimpica. «Portami in ospedale, mamma, non aspettare l’ambulanza che sto morendo». Poi quattro mesi di terapia intensiva, la sospensione, il limbo: toglietele tutto ma non la vita. «Sentivo che morivo, ma non ci ho mai creduto». La vita le è stata resa, ma qualcosa gliel’hanno tolta. Quando è “tornata” si è ritrovata addosso una pelle irriconoscibile e cicatrici sparse, l’amputazione a piedi e mani, qualche dita in meno e qualche domanda in più: «Cosa posso fare? Dove posso andare?». Ed è sbocciata. Sboccia ogni giorno, perché Yoko apre la primavera ed è germoglio e fioritura. Una giovane e bella donna che con ironia, ottimismo e curiosità può permettersi di pensare che quel che le manca è in ciò che ha guadagnato. Questa è Veronica Plebani e come sarebbe stata o avrebbe potuto essere non lo saprà mai, ma conta solo quello che è oggi: una triatlteta paralimpica che piange ancora quando rimpensa al bronzo di Tokyo e annaffia occhi che riempiono tutto lo spazio. Occhi che sono come mare intorno a un’isola, e ci si perde... E non ci sono cicatrici e non ci sono “manine” - come lei chiama le sue mani mutilate - che attraggano o distraggano da lei che è perfezione del controcanto. Chi nasce e rinasce sa cosa vuol dire morire e forse della morte non ha paura, semmai è più forte la paura di perdere. Chi nasce due volte è di certo un essere speciale in missione per tutti noi. Eccola Veronica Yoko Plebani nello splendore di un racconto senza veli, perché non ha niente da coprire questa ragazza nata e rinata, che quando si guarda allo specchio vede quello che è e non quello che poteva essere.

Yoko, com’è stato girare il documentario “Corpo a corpo”, essere sempre ripresa come in un reality?

«E’ stato molto facile perché ho fatto le cose della mia vita. A volte dovevo ripetere. E’ stato giusto dedicare tempo a questa cosa, ed è bello il risultato. Sono riuscita a gestire bene tutto. Perché le persone che ti osservano prepararti per qualcosa di grande alla fine ti trasmettono la loro aspettativa e possono esserci pressione o ansia difficili da tenere a bada».

Una Paralimpiade strepitosa sulla scia di un’Olimpiade altrettanto strepitosa ha avuto un’eco più grande? Sta cambiando qualcosa?

«Sì, sicuramente sta cambiando il modo in cui si guarda alla disabilità. Le Paralimpiadi sono uno stimolo per raccontare storie di persone vere che ci sono dietro ai risultati, ma il racconto andrebbe amplificato ancora di più».

Cos’è la diversità? Esiste davvero?

«Esiste tra le persone e dentro ogni persona, perché siamo fatti di tante variabili, siamo una composizione di pezzi diversi. In questo senso la diversità può essere un valore aggiunto, può essere bellissima e va sfruttata in ogni modo, intanto accettandola».

Dopo la meningite quanto tempo ci ha messo per ricominciare in una età delicatissima come i 15 anni?

«Non è stato facile, non so come ma ho affrontato tutto in modo positivo, con la curiosità di sempre. Mi sono detta “vabbè sono stata male, che cosa posso fare? dove posso andare? Cosa sarà poi?” Auguro a tutti di essere sempre curiosi del domani perché si scoprono tante cose belle».

Aveva consapevolezza che stesse morendo?

«Sì. Sono stata quattro mesi in rianimazione, sempre lucida. Non so se è stata una fortuna, per i medici sì. Sentivo la morte, una percezione esaltata dall’ospedale, ma non ho mai creduto che fosse la fine».

Il ritorno a scuola è stato difficile?

«E’ stato complicato, però ho saputo subito rispondere alla gente che anche sottovoce faceva battute. E poi avevo una classe e amici stupendi che non vedevano l’ora che tornassi. E’ stato tutto per me: se avevo delle paure nel ripresentarmi loro le hanno estirpate con gli abbracci, con la gioia di rivedermi, anche se in una forma nuova per loro ero sempre Veronica».

Bullismo ne ha subito?

«Impossibile. Avevo uno scudo bello forte, famiglia e amici meravigliosi».

Nel documentario dice che i figli, sette, li farà a quarant’anni, prima lo sport?

«Stavo giocando. Faccio trecentomila cose al giorno e poi ho 25 anni, adesso non ci penso proprio».

Non c’è spazio per l’amore?

«C’è spazio, c’è spazio, sono sempre innamorata. Mi innamoro continuamente. Sono fidanzata da quasi tre anni. Da due viviamo assieme».

E’ un atleta anche lui?

«No, assolutamente. E’ un musicista, non vuole fare nessuno sport. Questo mi aiuta, perché quando ho bisogno di riposare ho qualcuno che mi fa riposare. Francesco ha studiato pianoforte classico, ora è in magistrale e fa musiche per film, però è un pazzo, ascolta qualsiasi cosa, anche metal pesantissimo e suona tutti gli strumenti, mi piace ascoltarlo e mi insegna le tastiere, da piccola suonavo il piano, ora non mi riesce bene, preferisco la batteria che ho in casa. Con un padre musicista e dj sono sempre stata affascinata della musica».

Perché si chiama anche Yoko?

«Mia mamma è buddista, di un’associazione laica, quando stavo per nascere ha chiesto al presidente un nome giapponese con un bel significato e lui ha mandato questa pergamena dal Giappone con scritto Yoko che significa bambina solare, che nasce aprendo la primavera, io sono di marzo. Ci ha preso. Mi chiamano quasi tutti Yoko. Veronica mi piace, ma Yoko è più facile».

E’ buddhista anche lei?

«No, per ora non sono di nessuna religione. Sono legata alla fede della fatica».

E’ in pausa dagli allenamenti?

«In realtà ho fatto una bella pausa. Il 5 novembre ho il Mondiale ad Abu Dhabi».

Lei fa di tutto, era così anche prima?

«Faccio tutto quello che mi capita. Sono sempre stata iperattiva. I miei genitori avevano il problema di farmi stancare alla sera. Ho fatto anche pallavolo, rugby, basket. Lo sport è il mio strumento. Con lo snowboard ho fatto la mia prima Paralimpiade a Sochi».

I suoi pregi e difetti?

«Pregi: essere instacabile e curiosa, che mi porta a trovare opportunità e strade interessanti. Difetti: a volte esterno troppo, non ho paura, metto fretta alla gente, dimenticandomi che ognuno ha i suoi tempi e non sono tutti iperagitati come me. Sono determinata negli allenamenti, la fatica di tutti i giorni mi dà tantissimo e mi porta ad essere l’atleta che voglio essere, per altri funziona di più la gara, per me il percorso che porta alla gara. Però anche qui non aver paura mi porta a sbattere la testa e a farmi male».

Vivere di sport è il suo sogno o solo un percorso?

«Un percorso che mi è capitato. Mi sono laureata in Scienze Politiche, relazioni internazionali. Sto facendo la magistrale in Comunicazione per la politica e non so quello che farò più avanti, voglio scoprirlo. Non sono una che programma troppo, mi piace lavorare per lasciarmi tante porte aperte».

Dipende da ciò che le è successo?

«Forse sì. Non saprò mai come sarebbe stato altrimenti, per ora è così. A me è sempre piaciuto fare tante cose, poter provare quel che mi piace, è ancora così».

Lo sport salva la vita?

«A me sì. Mi ha fatto ritrovare tutta l’autostima e la forza di cui avevo bisogno».

Si sente di ostentare i segni della malattia?

«Non ostento. Le mie cicatrici sono la mia pelle, non le vivo come qualcosa di diverso, non riesco a immaginarmi con gambe diverse, i pantaloncini corti d’estate li metto perché ho caldo e mi piace come mi stanno, non penso di volerlo fare per esibizionismo».

E’ un messaggio per tutte le ragazze.

«Mi stupiscono certe ragazze bellissime che non hanno nessun problema e si bloccano su cose minuscole e  limitano la propria vita. Non potrei accettare di non sentirmi giusta. Auguro a tutte di non voler cambiare la loro forma. Quello che sei puoi riuscire a trasmetterlo se lo accetti».

Qual è il segno peggiore che le ha lasciato la malattia?

«Le cicatrici no. L’amputazione ai piedi mi sta antipatica, perché mi provoca dolore fisico. I miei piedi fanno schifo, lo dice anche il medico. Anche se mi vedete così e sembro fortissima nella vita di tutti i giorni c’è un impengo fisico importante, affronto diverse difficoltà legate alla disabilità. Il dolore a ogni passo scoccia. I piedi normali forse li vorrei. Con le protesi non ho avuto più male, questo è stato molto bello».

Sente mai di essere guardata in modo diverso?

«A volte, ma spero che raccontandomi nel modo più trasparente e semplice possibile svanisca questa cosa. Quando si inizia a parlare si instaura un dialogo onesto. Anche se dall’altra parte l’approccio non è altrettanto onesto è un’occasione per me di raccontare qualcosa di vero, sfrutto il momento per farlo, con la speranza che dall’altra parte si cambi, ci si contagi».

Le piace leggere e cosa?

«Oltre al mio libro “Fiori affamati di vita”, un romanzo che ho scritto con un'amica, che racconta la mia storia romanzata, da poco prima che mi ammalassi all’università, con personaggi fantastici. E’ stata un’occasione che ho colto come il documentario “Corpo a corpo”. Per il resto mi ritrovo sempre a leggere di filosofia politica».

Insomma anche scrittrice, cos’altro leggeremo?

«Non vorrei scrivere altro, se non qualcosa legato all’ambito politico. Però se la scrittura si rivela lo strumento giusto per fare arrivare qualcosa di importante agli altri perché no?»

Cinema, teatro si è ripartiti finalmente!

«Sono una appassionata, il cinema mi è mancato. Mi piace sapere come sono costruiti i film, cosa c’è dietro. Il film preferito? Non so fare una classifica... Solaris, Tree of life, La città incantata, For Sama».

Ci racconta il traguardo di Tokyo?

«Piango ogni volta che lo racconto. E’ stato un percorso impegnativo, gli ultimi due mesi passati in clausura in montagna ad allenarci. Con tante difficoltà, sono andata in over training, sono arrivata a Tokyo una settimana prima per via del covid. E’ stato strano. Una gara durissima, c’era un caldo allucinante, mi sono capitate cose... Per esempio, dopo mesi a studiare la borraccia giusta, in bici appena l’ho presa mi è scivolata! Mai capitato nella vita. Ho fatto tutta la frazione senza acqua. Purtroppo il mio corpo, a parte le cicatrici, non sa termoregolarsi e mi devo bagnare altrimenti mi scaldo tantissimo. Persa la borraccia mi è preso quasi un attacco di panico. Allora mi sono detta “fa niente, fai finta di essere in allenamento quando ti dimentichi di bere”. Sono arrivata all’ultimo giro di bici davvero provata, non vedevo l’ora di iniziare a correre perché lì l’acqua te la danno: mi sono scivolate tre bottiglie, la quarta l’ho afferrata, abbracciata, stretta. La soddisfazione di avercela fatta, sana e salva è stata grandissima».

La prima cosa o persona a cui hai pensato.

«Ero stralunata dall’emozione. Gli ultimi due giri ho capito che la medaglia era mia. Il picco di emozione è stato quando all’ultimo giro sul rettilineo è entrato un mio amico spagnolo, ci siamo ritrovati a correre insieme, ho cercato di dargli una pacca e pensavo ora tocca a me questa emozione. Ci pensi per anni chissà come mi sentirò, ma non lo puoi sapere. Sono arrivata al traguardo, il dt mi ha passato la bandiera dell’Italia, un uomo serio tutto d’un pezzo che piangeva come un bambino. E io a piangere disperata, pensavo alla mia famiglia, agli amici che stavano vedendo la gara, chissà come esultavano, come erano emozionati».

Tra mare e montagna dove va?

«Amo il mare, sono dei pesci. Il mio ragazzo è di Palermo e viviamo lì. Abitiamo a Mondello... Nuoto tutto l’anno anche se c’è freddo. Per me la Sicilia è ideale per allenarmi anche i raduni li facciamo là. Ho girato tanto, Palermo la conosco meglio di Francesco. Mi piace vivere la città, allenandomi conosco un sacco di gente. In bici ho girato tanto. Dovevo essere siciliana in un’altra vita, con Bergamo non ci azzecco niente, mi è rimasto solo quest’accento brutto che cerco di togliermi in tutti modi».

Le parole siciliane preferite?

«Minchia a parte... Fare le cose a muzzo» (a caso, male, senza attenzione ndr).

Il viaggio fermato dalla pandemia?

«Pensavo sempre al viaggio post olimpico, volevo vedere il Messico o girare del Portogallo in van. Quando sono tornata avevo solo voglia di stare in Sicilia, mi sono fatta un mese e mezzo in giro. Sono stata alle isole Eolie con le amiche, eravamo in dieci a Filicudi. Mi piace tantissimo guidare. Mi piace attraversare la Sicilia con il mio van dove porto la mia bici, devo averla sempre a portata di mano, non esiste che vada in giro senza».

Ha qualche rito pre-gara?

«Quando facevo canoa e snow sì. Nel triatlhon ci sono tante di quelle cose da preparare che diventa quello un rito. La danza delle ore prima. Molto bello, c’è una scaletta e mi aiuta a concentrarmi. Entri in transizione, visualizzi la gara vedi le cose che dovrai vedere e riuscire a prendere velocemente. E tutto diventa il rituale. Nessuna telefonata, ma se non ascolto Jeff Rosenstock prima della gara non va bene. Un pazzo pankettaro americano. Il giorno dopo la mia gara ha annunciato due concerti, ho preso subito i biglietti per le due serate consecutive a Dublino».

Sa cucinare?

«Faccio mille cose e cucino pure, mi piace. Ho imparato a fare le melanzane fritte perfettamente. Ho un debole per il fritto. Melanzana, panelle, crocché. Mangio anche pane ca meusa, le stigghiole, lo sfincione. Mi piace anche quello bagherese bianco senza pomodoro. Difficile combinare la vita da atleta con la cucina palermitana».

Yoko ma lei è davvero così trasparente, così gioiosa, senza sofferenza apparente?

«Sono così davvero. Ma sono anche una che piange tanto: mi emoziono molto e mi lascio andare facilmente. Vivo tra alti alti e bassi bassi, e mi muovo nel tentativo di un equilibrio».


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