Fusione a freddo

Adalberto Bortolotti è entrato da praticante allo Stadio e ne è uscito direttore. E ha guidato il giornale anche in quella “operazione al buio”, mai tentata prima, che ancora oggi resiste
Fusione a freddo
Adalberto Bortolotti
13 min

Qualche mese fa, giusto alla vigilia del Convid 19 che avrebbe messo sossopra le nostre abitudini, infransi un patto con me stesso, che prevedeva di rifiutare cortesemente ogni invito alla presentazione di un libro. Se ne scrivono tanti, in maggioranza inutili, di questi tempi, nei quali peraltro si legge sempre meno. Paradosso o contrappasso? La ragione di quello strappo alla regola era doverosa e inevitabile. Il libro, neppure in vendita, destinato a una ristretta cerchia di amatori, quindi prezioso, si intitolava “Luigi, mio padre” e l’autrice era Annalisa Chierici, sì, la figlia del fondatore e storico direttore per quasi un trentennio del nostro Stadio, il foglio verdolino che vide la luce quando si erano appena spenti i bagliori della guerra e appariva una follia dar vita – in un Paese che era un cumulo di macerie – a un giornale sportivo. Invece, fra alti e bassi, gioie e dolori, passando dall’iniziale frequenza settimanale, a bisettimanale, poi trisettimanale, sino ad approdare al quotidiano appuntamento con i lettori datato 1948, Stadio, che nel frattempo si è trovato un compagno di viaggio e di testata, ha messo insieme, arzillo più che mai, la bellezza di settantacinque anni. E chi ne ha vissuto l’avventura, chi vi è entrato praticante e ne è uscito direttore, non può che commuoversi guardando indietro e riavvolgendo il nastro dei ricordi.

L’INIZIO DI TUTTO

Se vogliamo rendere omaggio alla storia, Luigi Chierici fu l’inizio di tutto. In quel tormentoso e periglioso dopoguerra, che viveva non solo di entusiasmi e di ricostruzioni, ma anche di rancori e sanguinose rese dei conti, Chierici lavorava come redattore sportivo al Corriere dell’Emilia, che era il nome scelto per restituire verginità allo storico Resto del Carlino, cui si imputavano legami troppo stretti con il regime spazzato via dalla guerra. Lo spazio per lo sport era sempre più esiguo. Alle sue accorate lamentele, Chierici si sentiva rispondere: «Ma a chi vuoi che interessi lo sport, di questi tempi?». Però il giorno che di sport il giornale non riportava neppure una riga, mentre aveva dedicato tre intere colonne a un saggio di critica letteraria, affrontò il direttore Tibalducci con una proposta audace: «Perché non facciamo un supplemento settimanale del Corriere dell’Emilia, il lunedi, dedicato solo agli eventi sportivi?». Si aspettava un no secco, Tibalducci non amava lo sport e si faceva un vanto di non aver mai visto una partita di calcio, neppure quando il Bologna faceva tremare il mondo. Ebbe invece un immediato sì, con l’aggiunta di un’idea di titolo: STADIO. Chierici aveva inventato Stadio, ma non poteva dirigerlo. La sua posizione era ancora al vaglio della commissione d’epurazione. Così la firma la mise lo stesso Tibalducci e Chierici ne prese ufficialmente il timone soltanto sei mesi dopo la prima uscita. Che fu un successo inatteso e travolgente. Al punto che Stadio, incredibile ma vero, quasi ne morì. La tiratura saliva vertiginosamente, e di conseguenza il consumo di carta. Con la differenza che la carta andava pagata in anticipo, mentre l’incasso delle vendite arrivava con mesi di ritardo. I fondatori (con Chierici c’erano Remo Roveri, ex tipografo, poi uno dei più brillanti giornali sti della storia di Stadio, ed Ennio Viero, romano, acuto commentatore di calcio) dovettero cedere il loro gioiello per poche lire, pur di garantirne la sopravvivenza. Fu il primo scoglio, non sarebbe stato l’ultimo.

ESTATE 1963 

Prevengo l’obiezione: tutto molto commovente, ma che c’entra con la tua esperienza diretta nel giornale di cui festeggiamo il settantacinquesimo compleanno? C’entra, c’entra, solo un po’ di pazienza. Non per mio merito, ma unicamente per destino, io entrai a Stadio nel momento migliore della sua vita. Chierici mi aveva ingaggiato personalmente durante l’intervallo di Fiorentina-Bologna. Io facevo il servizio per Tuttosport, lui aveva seguito il Giro di Toscana, classica di ciclismo, chiusa da un ordine d’arrivo regale, Tacconi su Adorni. E poiché allora anche i direttori lavoravano duro, senza tanti privilegi, prima di rientrare in sede aveva fatto un salto allo stadio per impreziosire con il suo autorevole commento quello che passava a sua volta per una classica del calcio, il derby dell’Appennino. Eravamo sotto Natale, 23 dicembre 1962. Da pochi mesi, dopo un lungo abusivato, Tuttosport mi aveva inserito tra i praticanti, ultimo passo per diventare giornalista professionista. Debbo confessare che a convincermi ad accettare subito la proposta di Chierici fu soprattutto la prospettiva di rientrare a Bologna, la mia città, mai dimenticata nei pur dorati esili (Torino e appunto Firenze). «Non ti faccio fretta, chiudi regolarmente il rapporto con Tuttosport, il periodo di praticantato lo completerai con noi. Prenditi le tue vacanze e ci vediamo in estate». L’estate del 1963, avete presente? Quella che anticipò l’ultimo scudetto rossoblù, nella stagione più pazza che io ricordi, sconvolta prima dal caso doping e conclusa infine dalla vittoria nello spareggio con la grande, imbattibile (non nel nostro caso) Inter del mago Herrera. Senza dimenticare il tocco tragico, la morte dello storico presidente Dall’Ara alla vigilia del duello finale.

SQUADRONE 

A Stadio trovai una redazione di fuoriclasse. Chierici, Roveri, Mioli e Ronchi formavano la formidabile squadra del ciclismo, lo stesso Roveri con Parisini (genio della grafica, in anticipo sui tempi) coprivano il pugilato che aveva in Bologna la sua capitale, con l’idolo di casa Checco Cavicchi e la scuderia di Amaduzzi, Benvenuti in testa. Mio fratello maggiore Rino curava tennis e ippica, Giorgio Maioli il nuoto, Gigetto Vespignani basket e atletica, GB Marcheggiani auto e moto. E poi il calcio: l’inarrivabile competenza tecnica del caporedattore Aldo Bardelli, la purissima classe di Giulio Turrini, la vulcanica verve polemica di Alfeo Biagi. Lì ci infilammo Italo Cucci e io, gli ultimi arrivati insieme con il capitano, Cesare Trentini. Lo scudetto del Bologna proiettò Stadio al record di tiratura e a quel punto tutti i timori del passato parvero svanire. I Mondiali del 1966 non finirono in Corea solo per Mondino Fabbri. Pasquale, presidente federale, capì che nel calcio la sua stella era tramontata e si buttò nell’editoria sportiva. Comprò la Gazzetta dello Sport e con ingaggi calcistici radunò alla sua corte tutte le prime firme dei giornali concorrenti, da Brera, a Morino di Tuttosport, a Bardelli di Stadio. Cucci seguì Bardelli. Stadio accusò il colpo. E dire che tutto il gruppo editoriale che comprendeva Carlino, Nazione, Tirreno e Stadio era passato nelle mani del miliardario Attilio Monti e sembrava votato a un periodo di vacche grasse. Stadio fu scelto come cavia per sperimentare il “colore”, una novità per la stampa di quel tempo, la redazione lasciò la storica sede centrale per trasferirsi in periferia, in un faraonico palazzone che Parisini e Maioli, a corredo di un imponente servizio fotografico, definirono “il gigante bianco delle Roveri”, dal nome del quartiere. Nel 1971, giusto allo scoccare dei sessant’ anni, Luigi Chierici lasciò la direzione di Stadio e si chiuse un’epoca.

DIRETTORE

Dino Biondi, che lo sostituì, era un eccellente giornalista e un affermato scrittore. Un suo libro, “La fabbrica del duce”, ricostruisce con tale dovizia di particolari e profondità di ricerca l’apparato propagandistico che mandò in orbita Mussolini, da costituire un testo fondamentale nello studio del fascismo. Non era un giornalista sportivo, in senso stretto, e apparteneva alla cerchia dei direttori manager che andava via via sostituendo la figura del direttore di campo, inviato ai grandi avvenimenti e prima firma del giornale. Io gli debbo profonda riconoscenza, perché con lui la mia carriera decollò. Prima redattore capo, in tandem con l’indimenticabile amico Paolo Facchinetti, poi vicedirettore, in pratica una nomination, perché era noto a tutti che Biondi considerava quella sua avventura sportiva un intermezzo verso altri traguardi. Infatti, dopo quattro anni, mi chiamò e mi disse che mi aveva proposto come suo successore e che la proprietà si era detta d’accordo. Quel breve periodo che intercorse dalla mia nomina alla fusione con il Corriere dello Sport, 1978, non lo dimenticherò mai. Con l’orgoglio di aver scalato tutti i gradini, a passo di carica, c’era la voglia di lasciare una traccia, nella storia di un giornale che aveva avuto sin lì due soli direttori, Chierici e Biondi, appunto. Il mio ingenuo entusiasmo si scontrò ben presto con una realtà meno suggestiva. Gli ambiziosi progetti della proprietà prevedevano il poderoso rilancio dei due quotidiani pilota, Resto del Carlino e Nazione, e il progressivo accantonamento di quelli minori, Stadio e Tirreno, che nel linguaggio dei nuovi manager rampanti venivano etichettati come “rami secchi”. Quindi da tagliare, nel modo più indolore possibile. In quei giorni mi venne in mente Luigi Chierici, il suo vano peregrinare nelle banche per trovare il modo di salvare uno Stadio neonato, vittima del proprio successo. I tempi erano cambiati, i pericoli no.

E i pericoli maggiori venivano non dalla concorrenza, che pure cercava di sfruttare la situazione favorevole, com’era logico, ma dal subdolo fuoco amico. Stadio era tutto meno che un ramo secco, come i numeri testimoniavano, ma veniva fatto passare da inutile fardello, per i futuribili sviluppi aziendali. Su questa vicenda ho dovuto leggere, con una rabbia che riproduce quella di allora, fantasiose ricostruzioni “ad minchiam” (copyright del professor Scoglio) che offendono la verità dei fatti e delle date. Lasciamo i poveri di spirito al loro triste “pro domo mea” e torniamo a noi. Non avevo altre armi che lo stesso giornale. E così scrissi un articolo molto duro e realistico, in difesa di un piccolo quotidiano sportivo che non aveva santi in paradiso, ma non per questo meritava la condanna capitale. La mattina dopo, il telefono di casa suonò di buon’ora. Alzai il ricevitore sicuro: mi annunciano il licenziamento in tronco. Era invece una voce amica. «Sono Luigi Chierici». «Che sorpresa, direttore. Come sta?». «Potrei star meglio, ma non ti ho telefonato per questo. Il tuo pezzo di oggi mi è piaciuto molto. È nella tradizione del mio Stadio». Rimasi in silenzio. «Ci sei ancora?». «Sono senza parole. In tanti anni che ho lavorato sotto di lei è il primo complimento che ricevo». Tornò il ruvido Chierici di sempre: «Se non te ne ho mai fatti, vuol dire che non ce n’era bisogno».

FUSIONE 

Stadio doveva essere nato sotto una buona stella. Quando il suo destino pareva segnato, andò in porto la fusione con il Corriere dello Sport, il cui editore Franco Amodei cercava uno sbocco verso il Nord, per il suo quotidiano romano in forte ascesa. Fu un’operazione al buio, mai tentata prima. Per me fu il modo di ritrovare un fraterno collega come Giorgio Tosatti, con il quale ai tempi della comune milizia a Tuttosport avevamo dato il via a un’amicizia mai incrinatasi. Lui da Roma, io da Bologna, con il formidabile ausilio tecnologico di un vecchio telefax e soprattutto grazie all’abnegazione di tanti volonterosi colleghi che si erano imbarcati nell’avventura, posammo la prima pietra di una compenetrazione a doppia testata che, a quarantadue anni di distanza, prosegue con gagliarda vivacità. Alla faccia dei necrofori, tiè.


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